sabato 3 dicembre 2011

Patrizia Cavalli - "La Patria"


"Poesia" (Crocetti), Novembre 2011, num. 265

In Lo scaffale di Poesia una mia recensione al poemetto di Patrizia Cavalli: "La Patria", nottetempo, Roma 2011, pp.26, euro 3,00










(visualizza anche il pdf nel sito della casa editrice nottetempo)

martedì 6 settembre 2011

Irene Ester Leo - un inedito




C’è un movimento ascendente e discendente nella poesia di Irene Ester Leo, in una continuità che non risente della caduta né dell’innalzamento improvviso. Il passo di Irene è totale, non teme l’esplorazione selvaggia. Tuttavia è un'autrice sempre attenta a non sconfinare nella parola dissestata.  Solo così infatti, fedele ai suoi movimenti terrestri e letterari, riesce a costruire una poetica sempre nuova, sempre spiazzante. A metà tra cielo e terra. Di questa direzione (nuova all'evidenza, se ci soffermiamo all'inedito più sotto, ma già endemica nei suoi precedenti lavori) sono preludio - insieme - i suoi due libri "Io innalzo fiammiferi" (LietoColle 2010) e "Una terra che nessuno ha mai detto" (Ed. della Sera, 2010). Dalla verticalità alla fierezza del basso (della radice) quindi. Lei stessa, parlando della poesia, ha scritto: "Ora che anche io sono un po' morta con lei, chiedo di rinascere bruco, per andare a cercarla nei luoghi più bassi, nel carbone più nero dei semplici, tra le carte gialle di una dimenticanza, o negli scaffali di una mensola buia, nella coerenza di chi non ha mezzi termini, e nelle parole più spigolose e graffiate.". Tuttavia Antonella Anedda, nella prefazione alla prima raccolta del 2010, ha trovato il baricentro perfetto: "In realtà i suoi versi più belli splendono di un calore orizzontale, frontale, consapevoli del fatto che "è tutto una questione di luce". Dunque ascesa e caduta sono ricerca di equilibrio, ricerca mai finita poiché presuppone il galoppare su un mezzo ancestrale e sempre forte, la poesia, appunto, colei che insegna la favola più antica (S. Toma). Perciò quando ho chiesto a Irene di scegliere un testo in prosa da collegare alla sua poesia, senza esitare, mi ha citato un passo da "Demian" di Hesse. In fondo, sondare gli spazi della verticalità, orizzontalità e profondità è cercare di diventare artefici del proprio destino. Tentare per sempre di arrivare nel suo significato. Crearlo.


*

Vive in noi la duplice maledizione.
Il falco e la formica,
nella fratellanza della nascita
graffiano nei cardini divelti.
Il nord albeggia,
spinge verso l'alto
e insegna alle tempeste,
alla pioggia
ad allagare l'occhio
e l'artiglio ben oltre.
Il sud ci atterra
sino alla sottomissione aulica,
radice che si abbandona
alla dolcezza,
carapace di argilla,
precoce odore di pane,
nell'ora delle nascite.





Inedito tratto da ''Ape nera'' (In progress)



Molte volte avevo fantasticato sul mio futuro, avevo sognato ruoli che mi potevano essere destinati, poeta o profeta o pittore o qualcosa di simile. Niente di tutto ciò. Né io ero qui per fare il poeta, per predicare o dipingere, non ero qui per questo. Tutto ciò è secondario. La vera vocazione di ognuno è una sola, quella di conoscere se stessi. Uno può finire poeta o pazzo, profeta o delinquente, non è affar suo, e in fin dei conti è indifferente. Il problema è realizzare il suo proprio destino, non un destino qualunque, e viverlo tutto fino in fondo dentro di sé.
"
Demian", Hermann Hesse.


Irene Ester Leo, classe 1980, è laureata in Conservazione dei Beni Culturali (vecchio ordinamento), indirizzo dei Beni Mobili Artistici, con tesi in Storia dell'arte moderna in Puglia, presso l'Università del Salento. Maestro d'arte applicata: scultura e modellazione materie plastiche. Critico d'arte, illustratrice, è autrice di diverse pubblicazioni poetiche. Ha esordito "ufficialmente" nel 2006 con "Canto Blues alla deriva", Besa editrice. Nel 2007 ha ricevuto dal Teatro di Musica e Poesia “L'Arciliuto”di Roma il riconoscimento in “Kagolokatia”. Le sue poesie sono state inserite nella rivista letteraria “Incroci” diretta da Lino Angiuli e Raffaele Nigro, giugno 2009, Mario Adda Editore. Ha pubblicato nel settembre del 2009 “Sudapest”, Besa editrice. Nell'aprile del 2010 la raccolta poetica ''Io innalzo fiammiferi, con prefazione di Antonella Anedda, Lietocolle editore e nel settembre dello stesso anno “Una terra che nessuno ha mai detto”, con prefazione di Andrea Leone, Edizioni della Sera. E' presente su numerose antologie tra le quali AA. VV. ''L'ustione della Poesia'' a cura di Anna Maria Farabbi, Lietocolle editore 2010, “Il segreto delle fragole 2011” sempre Lietocolle. E' stata recensita da Maurizio Cucchi su “La Stampa”, e da Davide Rondoni su “Il sole 24 ore”. Ha partecipato alla “Biennale dei giovani artisti d’Europa e del mediterraneo, ( Skopje del Settembre 2009) entrando a far parte della rosa dei finalisti per la sezione “scritture” con un testo pubblicato nell'Antologia "Giovani Inkiostri" 2009 edito dall'Arci – Bari, ed inoltre a “Ritratti di Poesia- In viaggio con la Poesia” Tempio di Adriano, Piazza di Pietra, Roma, 22 gennaio 2010 (nella rosa dei sette poeti emergenti italiani). Collabora con il quotidiano“ Il Paese Nuovo” alla pagina culturale. 

martedì 9 agosto 2011

"Gioele e Martina", un poemetto di Giuseppe Vetromile



Gioele e Martina



Canto primo

Gira il vento un’altra pagina del giorno
anche da queste parti è l’imbrunire
la terra è tutta scura e stanca o Signore
ecco è l’ora di pregare in un ultimo
millimetro d’angolo di luce prima del
disfarsi del sole dietro i Camaldoli
con te Martina pregherò attendimi
al crocicchio stasera alle otto dopo
essermi diluito lungo il tramonto
appiattito a ridosso dei muriccioli
sgretolati del quartiere nessuno
mia cara potrà avvertire la mia
ala silenziosa sorvolare il respiro
trasparente del cielo stellato
Per me Martina sarà bello il solito
tuo spuntare dall’amalgama di folla
ribollente dietro l’ansimare del freddo
avventuroso vagone tranviario giù
alla fermata obbligatoria della
Stazione Centrale il nostro arcano
appuntamento al bivio del giorno
trascolorato in un impeto di
sragionato immenso amore

Per raccontarti tutto questo azzurro
ho ascoltato molte volte l’allodola
rinchiusa nel suo volo sopra i grigi
prati della fabbrica d’automi laggiù
in fondo all’allegria gratuita e non
poteva più uscirne libera che a sera
insieme a me e a mille altri fuggitivi
oltre gli schemi dei cancelli automatici
ho sopportato a lungo montagne di delitti
da ore immemorabili vedevo il cielo
e il sole morire dentro le inutili
stagioni del cuore imprigionato
Mi dissero pure che altro vuoi Gioele
da questa diritta vita di cemento
e di blandizie surrogate ? Il Giardino
delle Esperidi non è certo dietro l’angolo
accontèntati dunque di questo breve
viaggio giornaliero senza meraviglie
e senza caso dall’oggi al domani
senza incertezze io credo allora
che la polvere dei giorni stia piovendo
sul nostro inamovibile cuore ormai
inevitabilmente



Canto secondo

Nelle mani l’anima della città sfiorita ogni
passo una memoria di ciclici motori il
cigolio del tram nella stretta curva di
Piazza Vittoria questa frenesia di volare
sui bassi parapetti verso il mare ora
è tutta chiara la chimera in quest’angoscia
che ci sorprende sul margine di nafta
della scogliera appuntita ferma
da secoli a fermare l’impeto dell’onda
che lambisce grigia limatura probabilmente
la luna s’è spenta più volte tra
questi segreti anfratti putrescenti
regalando nastri d’argento ai pesci
in amore silenzioso noi non vediamo
ormai che i riflessi guizzanti di quel
lontano estraneo mondo sommerso
Ritrovarti quindi sul breve porticciolo
fitto di bitte è stato un refrain inaspettato
alla fine d’un tramonto colorato di mille
fiori profumati e lontano da questa
eterea spiaggia ho deposto per te
Martina la mia quotidiana attrezzatura
limato le unghie del lavoro staccato il
marcatempo aziendale aperto a caso
il mio taccuino da poeta ed ora spira
il mio canto dove più profondo è
lo sguardo dei tuoi occhi di smeraldo
nella fioca spenta luce dei lampioni
ritrovo l’allegria dei tuoi sorrisi il diletto
d’una età perduta oltre il diaframma
dei rispettosi canoni del quieto vivere

Mormora piccole storie la conchiglia
sul canto gaudente di risacca giù
alla marina il tempo breve d’un tuffo
nelle acque smeraldine l’impronta d’un
fiore di madreperla sul bagnasciuga
una reliquia da portarsi al collo
quanto più vicino al petto una corona
d’alghe profumate di salsedine una
stella marina unica fenice del
nostro isolato atomo di mondo
solitaria perla in uno scrigno d’osso
colmo d’amarezze e di rimpianto
Volava così l’airone sul lago oscuro
dei sogni cercando possibili approdi
su un letto acuto di canne barbare
appena un dolce stretto isolotto
di spugne senza lacrime né dolori
imbevute solo di eterna melassa
e noi lì a incutere timore ai rospi
dell’intricato canneto altro non so
mia cara se la morte a pelo d’acqua
privasse i loro corpi delle ali
per innalzarsi verso il più profondo
degli azzurri



Canto terzo

Gronda umide attese il pianerottolo
al terzo piano nei tramonti innumerevoli
nessuna stagione muta accanto ai fornelli
ghirigori di mille sapori umori e suoni
misti dal fondo delle quattro stanze evocano
pieghe di sicure felicità oltre il confine delle
favole scopro un abbandono atroce tutte
le volte che manchi dall’angolo sghimbescio
tra il tavolo e la tivvù assaporando
l’amarezza d’una solitaria regina tuttofare
imbrigliata in meccaniche faccende ma
io ti so Gioele nei meandri azzimi
a risolvere le formule del giorno con
l’atrio grezzo del tuo cuore mentre
con l’altro mai argini la dolce voce
di Erato sul bordo silenzioso della
tua vespertina scrivania quantunque
dicano bene tutti gli altri condomini
caro Gioele che vuoi che sia una
poesia al totale della sera vedi
mancano molti addendi non potrai
mai elencarli come le stelle nell’abisso
misterioso o come Dio nell’intercapedine
delle infinite parole ideate giusto a
presentarlo noi abbiamo solo te
e me all’ora della cena e forse
un’altra luna il sabato sera nella
penombra della radio potrà regalarci
un sogno alla deriva abbracciati insieme
su una zattera d’amore rilegato trascorrerà
la notte senza nome o mio Gioele eppure
così unica non ripeterà mai più
gli stessi baci

Un sogno benedetto amore mio e
così sia indovinando il tuo ritorno
ogni sera frequente e puntuale dai
deliri quotidiani io so che tu saltelli
in un silenzio di colori sulle ventimila
mattonelle ben squadrate della fabbrica
locale dove muta la materia e si fa
mobile ma s’arresta l’anima e il cielo
dietro uno scaffale eppure io Gioele
non ho una poesia che guarisca
ed asciughi le mie mani dal bucato
vesuviano non ho un minimo di verso
che liberi il cuore dal buio dei rottami
e dei rifiuti variopinti in questa casa
circoscritta da mille regole vitali
non ho che i quattro conti della spesa
e il caffè da preparare tra una
novella e l’altra alla tivvù le rughe
distendendo in un disciplinato
rabbioso pianto di pace


Canto quarto

In una catena di giorni uguali
tutto è rovina di clangori e alto
rumore di fondo né luce né tepore
lungo la via del Santuario fino
all’ossidato centro cittadino dove
è fumo denso la fretta dei passi
trema la terra sotto il peso del
gonfiore di cemento e cartastraccia
l’immondizia è fiore deturpato
mostra la sua corolla d’olio unto
ai tristi treni scivolanti sul
selciato blasfemo nitriscono solo
vecchi neri destrieri ansimanti
invadono la cala ottocentesca
monelli batraci di periferia ed io
dal Vomero su frammenti di traffico
precipito lento goccia di sabbia
nella clessidra del basso abitato
o mia dolce Martina è questa
la strofa che canto a voce alta
dietro i dirupi del cuore e nutro
la mia carne verosimilmente
di queste vettovaglie altrimenti
morirei nascosto dalla luna
sotto gli scogli

Non dire una parola già grassa di
retorica ne è piena l’aria della
bocca senza cuore guardami dentro
la pelle e ascolta i passeri sopra
il davanzale zincato del tramonto
quando si espandono i pastelli
della sera nel cielo che attende il
riposo del bagliore appiccicoso
osserva o mia dolce casalinga come
tornano i colombi alle grondaie
noncuranti delle navi per i vasti
oceani di scorie alla deriva
vortico anch’io e tu lo vedi tra
mille onde nei cieli favolosi di
splendore denutrito e mai approdo
ad un’isola diversa dalla mia
scrivania tentando di cucire
tasche di versi agli abiti del
pensiero riponendovi qua e là
notizie vaghe sul nostro
programma esistenziale
Perciò non credere che io finga
preghiere quando piango nei
sogni non è lacrima malata ma
dolore di atomi centrifugati dal
nocciolo del dubbio che altro sia
questo giaciglio tenero d’attesa
verso il solito ufficio del mattino
o mia compagna vesuviana non so
eppure esattamente ogni risveglio
s’insinua una lamina di sole
sopra l’oscuro comodino


Canto quinto

Sui paesi vesuviani sbadiglia l’ora del
risveglio non è come a Sofia o nel
Queensland dall’altra parte del
possibile anche se l’intrico di sole
tra le persiane semiabbassate
può essere lo stesso qui la vita
è di Gioele che si gioca per le strade
entro l’orlo della circoscrizione
tuttavia s’annuncia bene la giornata
dopo il lento consumarsi della luna
nella traiettoria dei sogni inventariati
nell’agenda prima delle croci
nonostante tutto è ancora fresca
la rosa sul balcone e peduncola
il misero ragnetto lungo l’architrave
da ieri non ha concluso ancora
la sua rete né reliquie di rugiada
resistono nei pochi rossi calici
giù nell’erba misteriosa un randagio
annusa speranzoso tra le piante
ignote mai curate

Chi vivrà vedrà Martina mia nell’estate
sarà nostra la feriale avventura verso
i lidi occasionali se anche quest’anno
sarà vuoto l’alambicco che ne diresti
dei soliti passeggi lungo i viali vesuviani ?

Piccolo e breve è il nostro potere d’acquisto
in questa piazza d’affari sgargianti
e il clangore delle monete risuona
smorto nei nostri sogni sempre
vaporosa è la festa della domenica
in un canto di clacson e di campane
verso il porto dei miracoli promessi
nell’odore di frittelle trovi a volte
l’incenso della Messa confusa dal
suono degli organi e dei pulpiti nel
palpito impaziente si consuma la
mezza mattinata e poi langue il
dopopranzo su un primo assaggio
di un’altra sera fallita che ne diresti
di una gita a mezzanotte ? A Mergellina
lungo il molo dove t’incontrai nel
primo amore ora suonano i marosi
e il parapetto odora di lerciume e di
taralli e noi forti caparbi dalle vetrine
del mare sotto le stelle estrapoliamo
l’antica storia della nobile Sirena

In ogni caso è questa la discesa altro
non potevamo essere che semplice
poesia in questo bagno di materia
sarà meglio soffrire le mille partenze
per l’ufficio l’infinita gloria dei piccoli
limoni spremuti sul bollito o il gusto
d’un caffè al bar del Santuario prima
che il cuore urli il suo grande no
definitivo ai raggi dell’ultima luna
sopra il serale comodino





Giuseppe Vetromile, nato a Napoli nel 1949, vive ed opera a Sant’Anastasia, nei pressi del famoso Santuario di Madonna dell'Arco, promuovendo e organizzando eventi ed incontri letterari con il suo “Circolo Letterario Anastasiano”. Poeta e scrittore, ha pubblicato numerosi testi di poesia con importanti Editori come Bastogi, Scuderi, Ripostes, Samperi, e, con l'Editore Kairos di Napoli, una recente raccolta di racconti, intitolata "Il signor Attilio Cindramo e altri perdenti". Ha vinto numerosi premi in concorsi letterari nazionali di rilievo, sia per la poesia che per la narrativa, ai quali partecipa tuttora ottenendo sempre lusinghiere affermazioni. Partecipa attivamente ad incontri e convegni sulla poesia. E’ membro di giuria in alcuni concorsi di rilevanza nazionale. E’ inserito in numerose antologie ed è inoltre citato in importanti pubblicazioni e saggi critici. Dirige la Collana di poesie "Il retroverso" per conto delle Edizioni del Calatino di Giuseppe Samperi di Castel di Judica. Ha curato l'Antologia "Attraverso la città" per conto della Casa Editrice Giovanna Scuderi di Avellino. Ospita importanti testi poetici e relativi commenti sul suo blog "Transiti Poetici". Suoi articoli, note critiche e varie recensioni, sono apparsi su diverse riviste letterarie nazionali e sulla stampa on-line.



lunedì 11 luglio 2011

"rapida e serena l'anima ringrazia", due poesie di Michela Zanarella






da: "Sensualità - Poesie d'amore d'amare" (Sangel edizioni, 2011)


L'anima ringrazia

C'è un amore in me
necessario come una madre,
necessario come un silenzio
che calma le statue, i luoghi,
i sensi.
Dolce tra le fiamme
un sorriso si fa palazzo
sulla spiaggia di un istante.
Di fronte ad una luce maschile
calda
sdraio la sete di un bacio.
Mi sento tra la grandezza
ed altro mare,
ora e vita - musica verde -
sullo stare a cuore spalancato.
E da una parte all'altra
di un cortile di ciglia,
rapida e serena l'anima ringrazia.



Chi ama

Lontana da te non esisto.
Il saperti sul mio seno
in un angolo a stendere il tuo azzurro,
è necessario come un susseguirsi
di stagioni.
Non so, ma la vita è misera
come un secco ruscello d'agosto,
senza il tuo fiato accanto.
Chi ama è ricco in tutto il corpo.
E al suono d' acqua non vuole altro.





Michela Zanarella (1980) è nata a Cittadella, Padova.
Inizia a scrivere poesie nel 2004. Ha pubblicato i libri di versi “Credo” (ass. culturale MeEdusa), “Risvegli” (ed. Nuovi Poeti), "vita, infinito, paradisi" (ed. Stravagario, 2009), “SENSUALITÀ, poesie d’amore d’amare” (ed. Sangel, 2011) e la raccolta di racconti “Convivendo con le nuvole” (GDS, 2009). La sua poesia è tradotta in inglese, francese, spagnolo, arabo. Partecipa attivamente alla diffusione della poesia.
È stata ospite della trasmissione radiofonica condotta da Rosanna Perozzo su Radio Cooperativa di Padova. Ha partecipato alla trasmissione televisiva "Poeti e Poesia" di Elio Pecora su Televita, a Roma.
Alcuni articoli sulla sua scrittura sono stati pubblicati in quotidiani (il Mattino di Padova, il Gazzettino di Padova, il Padova, la voce dei Berici) in settimanali (Periodico Italiano) in rivista (Orizzonti, distribuito dalla Feltrinelli) e sull’on-web. È socia onoraria dell’associazione u.i.s.p. “Infiniti Sogni”. Ha ottenuto il terzo posto nella categoria “poesia edita” al premio "Memorial Gennaro Sparagna 2009". È seconda classificata al premio "Donne...sulle tracce di Eva”, finalista al You Artist Festival 2011 di Roma e tra i vincitori del Premio Internazionale Progetto Sud 2033 a Palermo. È prima classificata al Premio “pubblica con noi 2011” di Fara Edizioni. Quattro sue poesie sono pubblicate nel sito ufficiale di Pier Paolo Pasolini e nel sito ufficiale di Alda Merini. Sta scrivendo il suo primo romanzo. E' la responsabile dei siti www.apostrofando.it, www.screensoda.it, www.iltrovaevento.it.

sabato 9 luglio 2011

Elia Malagò - "Incauta Solitudine"

"Poesia" (Crocetti), Luglio/Agosto 2011, num. 262

In Lo scaffale di Poesia una mia recensione al libro di Elia Malagò: "Incauta solitudine", Passigli, Firenze 2010, pp.112, euro 14,00



martedì 5 luglio 2011

Laura Accerboni - "Attorno a ciò che non è stato"

Laura Accerboni, Attorno a ciò che non è stato Venezia, Edizioni del Leone, 2010, pagg. 48, € 6,50


Einmal ist Keinmal ovvero una cosa che accade una sola volta è come se non fosse mai accaduta: così sembra suggerire Attorno a ciò che non è stato (Venezia, Edizioni del Leone, 2010), il libro d’esordio della genovese Laura Accerboni, classe 1985.
Non mi sembra di citare a sproposito Milan Kundera e la teoria dell’insostenibilità della vita che procede in linea retta, laddove la felicità sembra provenire soltanto da una ripetizione continua e “pesante” e prevedibile degli eventi.
Pensate ad una consapevolezza di quella linea retta e alla ripetizione precisa di fatti, esistenze e dati corporei, senza che tutto ciò si traduca in quella felicità succitata: è il lavoro dell’Accerboni e il miracolo di una poesia che dice il non detto, ricrea il non creato e ragiona sul non accaduto mantenendosi sempre fedele a sé stessa, lontana da falsi moralismi, scevra di consigli e soluzioni.
Com’è possibile? Così è perché Laura cammina la poesia da una vita – la sua – col coraggio e una lingua libera di dire, senza risparmiarsi e senza lasciarsi dietro e attorno scappatoie di sorta o porte segrete nelle quali cercare la fuga quando il gioco – o il confronto – si fa duro.
La costruzione di ciò che non è [stato], è possibile in poesia mettendo a fuoco le questioni, tentando fino all’inverosimile. L’Accerboni parla per sé e per gli altri scendendo “come si può / in ruoli non certi” (p.9), mettendo sì una rete a protezione perché dotata di un’intelligenza severa che le fa considerare il fallimento ma – di fatto – con la consapevolezza di dover dire, doverlo al mondo, apportare il proprio contributo di fruitore della parola, di poeta. In termini positivi, Laura lavora con abnegazione e sa che difficilmente i suoi concetti possono fallire, perché ci mette spalle al muro e sotto gli occhi le cose che non facciamo, rimandiamo e dunque perdiamo per sempre.
E così pone in essere il suo intervento vestendosi come la gente, tipi riconoscibili, esemplari-campioni dell’umanità. Prende i panni di moglie e marito, uomo e donna, vivo e morto svelando – anche – le regole del gioco (“a mia moglie / il bianco lucido / della casa” p.10; “io sto / come sospeso / io sono / vestito di tutto” p.20; “Sono / la segretaria / che non registra, / la cameriera / che ti riempie le ore / di niente. / Sono la badante / che disprezzi / e non occorre, / sono il pronto soccorso / di tutti i sani / e l’attesa / di tutti i santi. / Sono / la donna delle pulizie / che ti ruba lo sporco, / sono la cassiera / che ti fa credito / solo se non compri, / sono il rifugio / di tutte le case / e la consolazione / delle migliori acquirenti.” p.21). Elio Grasso, in prefazione, parla di un “sovvertimento” del poeta e forse il fuoco del discorso di Attorno a ciò che non è stato è tutto lì, nell’atto di eversione che segue dal lavoro di premessa fatto da Laura. Ci sono corpi e fossi e nomi e volti tutti ricorrenti e tutti indispensabili: sono la premessa. E poi c’è il centro, il nocciolo duro: dirsi inesistente e così darsi vita da sé stessa, generarsi con potenza, guardare in faccia la vita, non aver paura della morte perché siamo “già vivi in vita” (p. 37).
“Dovevamo stare più attenti” (p.13) a far sì che tutto accadesse, che tutto assomigliasse a ciò che sarebbe stato. Qualcosa non è avvenuto per disattenzione ma questo, tutto questo, è premessa. Laura ha in sé, invece, il germe della possibilità, la libertà delle forme, la natura della decisione e del compimento. In effetti sembra che si stia “aspettando / il giorno a venire” (p.42) facendo pulizia ben bene delle ombre, simulacri, immaginazioni (“non dovrà rimanere / troppo a lungo / ciò che mai è stato” p.42). Siamo tutti sospesi a un tacito evento, scriveva Sereni, e forse l’evento di Laura Accerboni è occupare e rivendicare un posto in mezzo alla “plastica di corpi” (p.14), la “parola d’altri” (p.22) proponendosi di costruire da capo e con la parola poetica ciò che non è ancora stato perché “È una vita / che il mattino / si sorprende / di prenderci / sempre / alle spalle” (p.26).

anna ruotolo


***
Si sale come per caso
sospesi e credibili
in tutte le parti.
O forse
si scende
come si può
in ruoli non certi.
O ancora
semplicemente
si rimane
in attesa
di migliori spiegazioni.



Sono finite
le gocce
e i calmanti,
finite le analisi del cranio
e la misura del ventre.
Dovevamo stare più attenti
coprire il volto
fino al mento
che fuori fa freddo
e coprire,
coprire tutta la stanza
e tenerci in movimento.



Senza treni
ad aspettarmi,
mi dico
che questa gente
è solo riflesso
dell’orario stabilito.
Sarà perché non ho nulla
di cui lamentarmi,
nulla,
neanche di questo vuoto
che a fatica
si ingoia
e mi rigetta
intera e senza aspetto.



Sono
la segretaria
che non registra,
la cameriera
che ti riempie le ore
di niente.
Sono la badante
che disprezzi
e non occorre,
sono il pronto soccorso
di tutti i sani
e l’attesa
di tutti i santi.
Sono
la donna delle pulizie
che ti ruba lo sporco,
sono la cassiera
che ti fa credito
solo se non compri,
sono il rifugio
di tutte le case
e la consolazione
delle migliori acquirenti.



In questa stanza
di mani rigide
pronte alla stretta
so che non sarà
il mio volto
a esser scelto:
è il calcolo programmato dei nomi
la distinzione netta
tra chi può sedere sicuro
e chi dovrà alzarsi
prima del tempo.



Lo avevano detto
che non si vive
per sempre,
ci avevano avvertiti
nell’unico linguaggio
che cura la vita.
Non possiamo appellarci
a niente,
neanche al veleno
che si ingurgita
di giorno
per addormentare
i bambini.
O forse
malati di altra malattia
potremmo chiedere
un rinvio,
un prestito,
per abituarci all’idea
che di morte non si muore
se non in vita.



Sono nubi scure
a fermarsi
davanti al volto
così mi preparo
a piovere
e batto
batto sul tavolo
di casa
e tutto intorno.


Dalla prefazione di Elio Grasso:[...] A capofitto nel motivo conduttore dei corpi, perfino dentro il loro rovescio, Laura esercita i livelli della sua percezione, precisandone in ogni pagina precipizi, anomalie e ogni specie di antiche battaglie. E’ soprattutto il desiderio di entrare e muoversi dentro il riflesso del mondo (quello che ci fa sentire soli in una stazione prima dell’arrivo di un treno qualsiasi) a orientare tutta questa poesia, facendone questione d’esperienza primaria. E nel riflesso del mondo appaiono ancora più vere le misure degli uomini e delle donne, con i loro ventri e le loro passioni, i loro figli e ogni cosa sintonizzata con la meditazione di Laura: ora cordiale, ora perentoria come se non esistesse alternativa ai ruoli che ci rivela. [...]




Laura Accerboni è nata il 7/5/1985 a Genova, si è diplomata nel 2003 presso il Liceo Ginnasio Statale Andrea D’Oria di Genova. E’ iscritta a Lettere Moderne all’Università di Genova. Sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste tra le quali Italian Poetry Rewiew, Poesia Crocetti Editore, sullo Specchio della Stampa. Ha conseguito diversi premi letterari tra i quali: Lerici Pea giovani 1996; Premio Letterario Internazionale Maestrale San Marco 1999, 1° premio sezione giovani; Premio Letterario Nazionale il Molinello 2000, 1° premio per le scuole superiori; Premio Internazionale di Poesia Città di Monza 2000, 1° premio sezione giovani; Città di Castello Artea Premio Nazionale 2002/2003, 1° premio poesia sezione scuole; Concorso Letterario Internazionale “Città di Ancona” 2004, 1° premio Sezione studenti; Concorso Gemine Muse 2005 Cremona 1° classificata sezione poesia; Concorso CercaTalenti 2006 Genova, 1° classificata sezione poesia; Concorso Nazionale organizzato dalla Provincia di Pisa“Giovani TalentiCercasi” 2009 1°premio Sezione Poesia. Dal 2006 collabora alla manifestazione “Percorsi Poetici” inserita nell’ambito del Festival Internazionale di Poesia di Genova.

Articolo già pubblicato in "Giovin/astri di Kolibris"

lunedì 4 luglio 2011

"Ora ti trovo discosto oltremare...", tre poesie di Federica Volpe






*
Avrei voluto esserti donna tutt'attorno
a sentire il rovistare tra i segreti di soffitta. 
Ma tu mi chiedi di esserti al fianco 
-come una spina- stretta di silenzio.
Chissà se lo conosci il dolore che fanno 
le polveri sulle cose smesse a sbigottire.




*
Ho bisogno del tempo del viaggio per tornare
a concepirti mano che scruta e che non teme. 
Vedi, ho contato le tue vertebre come fossero perle
di rosario. Ora ti varco le porte degli occhi 
e mi faccio pietra come tra pietre cimiteriali. 
Ogni tua costola è una croce d’abbraccio
che gelido ha scaldato il brodo del sangue
che ancora smuovo per questa docile pietà 
che mi riporto come un cane fa coi legni. 
Vedi, ho risalito i tuoi tendini boschivi in cerca
della fuga. Ora ti trovo discosto oltremare 
e mi faccio isola come tra isole fluviali. 
Ho bisogno del tempo del viaggio per tornare
a concepirmi mano che scruta e che non teme.




*
Ti sento dentro a crescere i miei inverni, 
a tramutare il porto in ossidiana. I pesci
non neccesitano di pinne dell'andare
-pinna è solo ancora che cura, che rimane 
ma non muore, come pozzo di premure-. 
Tu sei l'inverno, il porto, il pesce, il pozzo, 
tu sei l'ancora che porta senso
al deserto d'onde del mio stare.
 .


Federica Volpe vive a Carate Brianza, grembo da cui è nata e da cui tenta la rinascita quasi ogni giorno. Vi giace come cosa senza peso, cullata dai respiri delle esistenze silenziose  che le parlano. Questi dialoghi senza nome li chiama "poesia". 
Ha pubblicato LEMBI (Onirica Edizioni, 2010) ed è presente nella antologia QUATTRO GIOVIN/ASTRI (Kolibris Edizioni, 2010), oltre che in una serie di altre antologie. 
Di ogni cosa che ha scritto sente l'insoddisfazione che sgorga dalla non corrispondenza del canto che solo sa ascoltare e non riprodurre, e non ridare. 
Ha creato con Barbara Bracci il sito VIR-US (http://www.vir-uspoesia.beepworld.it/), collabora ai blog I GIOVIN/ASTRI DI KOLIBRIS (http://giovinastridikolibris.wordpress.com/) e FARAPOESIA (http://farapoesia.blogspot.com/). Ha un blog personale destinato alla diffusione della poesia altrui (http://federicavolpe-poetry.blogspot.com/) e un sito personale (http://federicavolpe.beepworld.it/).

sabato 2 luglio 2011

"a(t)tenersi", una poesia di Francesca Coppola






a(t)tenersi

è tradurre amore
con il senso di una bottiglia
piena di tappi, dal collo
così lungo

come a dirsi tante cose
e poi non sapere nulla
quando mi interroghi
snocciolandomi le dita

dispersa in chilometri
mi raccogli con la gola
di chi sa aspettare

è proprio allora
che sto lì, lì per confessare
mi tengo_mi tieni
racchiusa in 194 centimetri
di te





Francesca Coppola, classe 1982, napoletana di Portici, si laurea in “Cultura & amministrazione dei beni culturali”. Da sempre interessata alla scrittura, agli effetti benefici che ne conseguono, alle possibilità di esternare e condividere, sfrutta al massimo il filo illogico di internet. Siti di poesie e forum diventano ben presto la sua casa, così le varie discussioni acquistano il sapore del pane quotidiano. Cercare e non trovare, difendersi a colpi di cartapesta, ragionare più del dovuto, infine capire che la meta è sempre la stessa, sono le strade a cambiare volto: queste le costanti del suo cammino in poesia. Gestisce Versinvena, un forum di scrittura creativa assieme a Roberta D’Aquino. Fa parte della redazione de I Giovin/astri di Kolibris. Cura il suo blog personale.

Michele Porsia - da “Bianchi girari”





Senza temere la parola e già a partire dal titolo centrato e particolarissimo di questa silloge inedita – titolo-chiave -, Porsia costruisce una piccola bibbia che trascrive con l’amore e la dedizione di un amanuense. Disegna ad uno ad uno i suoi Bianchi girari (in "Voci della luna 48", Ottobre 2010), fantastiche bordure di una scrittura arrivata a noi splendente e intatta.

Lontana, nonostante il richiamo umanistico, dall’apparire “già sentita” o “antica”, la scrittura di Michele Porsia rivà fino alle origini, traccia quasi un’antropologia dell’archeologo indefesso, costante, piegato sul suo lavoro. Egli scava per cercare le ossa, i corpi stretti calcificati tra loro e, dietro questi, cerca ben oltre e intende trovare il “primum” della parola, il suo inizio (“il diario dello scavo / poema nella stratigrafia delle parole”). Il lavoro di Porsia procede per sottrazione, eliminazione di strati e sovrastrutture. E’, certamente, una ricerca costante, un “riportare alla luce” ma anche un lavoro di catalogazione, registrazione e racconto. Dall’inizio – da capo – tutto riparte primo, puro, non toccato (Ma forse / non aveva ancora nome l’amore / e la morte) così come la prima lettera di un manoscritto, l’incipit fregiato, un grande inizio che attiri. Sembra si sfiori l’impasse: è parola-pietra liscia e nuda che scintilla appena riemersa dall’acqua e, insieme, bianco girare nient’affatto spoglio e modesto? Non deve spaventare il contrasto, dall’impasse si esce pensando che Porsia probabilmente conosce il peso di una poesia che si innalza dal colloquialismo quotidiano e fa un salto all’indietro – ma così, forse, proprio più in alto e dunque liberatorio -, una poesia preziosa che costa impegno e precisione, dorature, crescenza e perizia, senza che questo appesantisca il senso e l’operazione, anzi, facendo solo intravedere l’intenzione. La storia umana del poeta – visibile a tratti e quindi mai troppo centrale nel discorso – e la storia di tutti mancano qualche processo troppo lontano, troppo pulviscolare, non vogliono sentire ragioni: partono dal detto, dal pronunciato, pure se questo dovesse significare cominciare il “lavoro dell’appartenenza”, la ricerca degli antenati da poche sillabe, da una lallazione incerta.
Porsia a volte scava con l’acribia del tecnico, a volte trivella con più forza e lo confessa attraverso alcune figure e correlativi che funzionano bene. Ma il poeta, in realtà, non scava che la parola, perdendola anche (e per fortuna) ogni tanto, da una bic (“è stato come perdere una biro. / Svanita nella mano: /era una bic. Per strada in bicicletta”) o in frammenti di testo. Perché la costruzione è lunga, il lavoro arduo, il tempo quasi un nemico.

anna ruotolo

*** 


verba volant
non è un filo. La parola è pensiero in polvere, il residuo grigio di una
materia cerebrale.
Celebra la cenere, la terra. Arretra, se temi la parola, ma poni prima un
fermacarte sulla fossa, che indichi il pericolo di questo luogo.
O il vento, senza neppure chiedertelo, prenderà la scrittura e la porterà
sulla tua bocca.
Mettici una pietra sopra. Tu temi la parola perché vola.
Tu temi la parola perché vuole



a C.

I. li hanno ritrovati sottoterra
in una pagina di argilla,
in un abbraccio
così lungo da consumare il corpo.
Dalla pelle alla carne
le carezze
allentate fino alle ossa intrecciate tra le gambe.
Ischio e coccige
mischiati a qualche selce,
il femore e la tibia
incrociati (per essere vicini)
li hanno ritrovati nudi, primitivi,
in fragili frantumi nella nebbia.
Nella pianura di Valdaro
la saliva è divenuta polvere,
il diario dello scavo
poema nella stratigrafia delle parole
un verso dopo l’altro verso l’origine del mondo




II. la caligine, e i teschi
sono apparsi in una forma cardiaca
sulle spine
dorsali, scarne trame quotidiane
disegnate nei quadrati
un metro per un metro. Un abbraccio
di vetro esumato per divenire
friabile incrocio
di omero e di ulna -che non venga in questo luogo
chi non è mai riuscito
ad annodarsi dall’interno con un altroil
canto segue
Jorge Enrique Adoum, un’ombra
che attraversa la pagina per un istante solo.
Si ricompone il tempo,
una pangea
che sovrappone a Sumpa
la periferia di Mantova.
L’archeologia del sentimento è stata un unico cantiere
in cui venne la parola nera a chiederci,
a trovarci per tradire il silenzio
per rimanere nascosti in un doppio incavo di terra



III. sapremo dalle analisi di laboratorio i loro sessi
il colore dei capelli,
gli occhi,
faranno maschere di cera
per imitare i tratti
eppure il codice genetico, la radice di un dente
non potrà restituirci la parola. Niente.
Ma forse
non aveva ancora nome l’amore
e la morte
faceva parte della vita, che veniva dissepolta, la voce
di un pazzo che grida:
- io con la morte ci faccio l’amore -                                                            
 l’amore con la morte in allitterazione



ma il corpo perdura nella sua scomposizione.
La federa non ha tenuto l’odore del respiro
(è bastato un cambio d’aria, un risveglio)
le mani o le foglie di nelumbo
sono sul torace che inizia a putrefare.
La parola è persa
di nuovo nella casa
perché non basta il culto del defunto.
Ti starei accanto fingendo di dormire
nonostante il giorno



è stato come perdere una biro.
Svanita nella mano:
era una bic. Per strada in bicicletta
mi volto indietro, per cercarla.
Niente euridice. Neppure l’ombra. Bramo.
Un’ora di ritardo, si fa buio;
non è neanche a casa ad aspettarmi;
rovisto tra le stoviglie. Veglio
(nel frattempo giro
nell’isola di una parentesi curva
del tempo dilatato del dolore. Frantumato)

.
 
Michele Porsia è nato a Termoli il sei maggio 1982. Vive a Firenze.
Selezionato da Andrea Sirotti e da Vittorio Biagini per Nodo Sottile 5, ha preso parte dal 27 al 30 Settembre del 2007 a un laboratorio a cura di Antonella Anedda e Gianmario Villalta. Nel 2008 è stata pubblicata Nodo sottile 5 un’antologia edita da Le Lettere con alcuni suoi testi. Nel 2009 ha vinto il premio Cose a parole indetto da Giulio Perrone editore che ha pubblicato Sintomi di Alofilia nella collana Lab. Nello stesso anno ha partecipato al Parma poesia Festival e alla Biennale di Skopje dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo. Tra il 15 e il 19 febbraio 2010 alcuni suoi testi sono stati trasmessi durante il programma Fharenheit di Radio Rai 3. È stato finalista di Subway 2010 ed è perciò presente nell’antologia del premio distribuita in metropolitana. È stato segnalato al premio Lorenzo Montano 2010 con la raccolta inedita Bianchi Girari e una selezione di testi tratti da questa è arrivata terza al premio Renato Giorgi 2010. È presente su Absolutepoetry con alcune sue poesie, una registrazione audio.
Si occupa inoltre di architettura e di arti figurative, fa parte di Hanife Ana Teatro Jazz con cui ha collaborato nella realizzazione di alcuni video.
 
(articolo già pubblicato in Giovin/astri di Kolibris)

lunedì 27 giugno 2011

Marco Pivato - "A poca voce"





Basta sfogliare le recensioni, note critiche, pareri apparsi nel web che salutano con favore l’opera prima di poesia di Marco Pivato (classe 1980), di formazione chimico farmaceutico, per farsi un’idea chiara e precisa, ricostruire una mappatura certa della poetica di questo giovane autore. Quand’è così è sempre difficile essere quella che viene dopo, una che viene a raccontarci dell’altro. Altro da aggiungere? No, certamente. Dichiaro sin d’ora che non è questo il risultato cui tendo, quanto quello di diffondere una parola che va diffusa, discutere circa un’idea della poesia che va discussa. Mi spinge una necessità, dunque. Un dovere laddove esiste, senza dubbio, un merito. Le poesie di Marco, tratte dal libro “A poca voce” (Manni, 2008) sono una “riflessione scientifica” sull’amore che merita attenzione, una ricerca condotta con gli strumenti della parola poetica. Anzi, scienza e poesia sono due azioni strettamente connesse. Entrambe spingono verso la conoscenza del mondo, delle sue dinamiche. Lo stesso Marco in una bella intervista rilasciata ad Ennio Cavalli per Rai Radio1 dice che “la scienza, piuttosto che a farla, sono più bravo a raccontarla”. Cos’è che può essere raccontato a poca voce? Si può dire dell’amore con poca voce? Sembra di sì, se la botanica del sentimento basta a se stessa e scoppia di vita e di presenza perché così arriva, come una scoperta. E noi ne siamo vettori, a volte inconsapevoli, a volte partecipanti. Pivato, però, fa un salto in più: ne è osservatore interno ed esterno, non si tira indietro al momento della verifica, della dimostrazione della teoria. Non è solo un teorico ma esercita un empirismo amoroso; è un instancabile ricercatore eppure umile, col radar sempre all’erta e, forse, la sanissima paura di fallire (ora per favore, / reggi per me / la mia paura.). Questo è certo. Bene dice Zavoli nella sua prefazione: “[…] la ricerca e la conoscenza, la percezione e il sentimento di quello stato regale e del suo indefettibile dominio; e qui mi preme non lasciar prevalere l’idea che si tratti di un “canzoniere” dedicato non tanto all’amore, quanto a una alchimistica, combinatoria, innamorante felicità dell’animo e del corpo.” Ma anche lo stesso Marco, in una sua nota, specifica: “E questo è l’elemento comune a scienza e poesia: l’uso delle immagini. La scienza con la teoria, e la poesia con la retorica, tracciano immagini del mondo e dei suoi fenomeni. Nella volontà, più o meno conscia, di scienziati e poeti, c’è il desiderio comune di riprodurre il mondo, c’è la fantasia di ricostruirlo per renderlo presentabile, accettabile e comprensibile. Contemporaneamente dal punto di vista logico e dal punto di vista emotivo.” Penetrare, col corpo tutto, all’interno del poema della natura e riportalo chiaro e irriducibile all’occhio del lettore pare sia il movimento reale di Pivato, quello che si coglie forte e vivido leggendo i versi, travalicando, a volte, persino le dichiarazioni di poetica più su riportate: “È tarda primavera, / dormi con me su questo letto / di colza e di ginestre gialle.”; “Dimmi, / dov’è che sta la vita nelle persone? / Dov’è che fa radici? […] Sta nel riso? Nel chicco d’uva? / Dove sta? / Sta nel tuo smalto? / Nelle dita sottilissime?”. E a volte una risposta arriva come giunge una scoperta inaspettata, mentre si segue un percorso di metodo e rigore, di laboratorio, di chimica e formule. Ed è come per quegli eventi che accadono e che lo scienziato ripercorre in lungo e in largo per poter dare un senso, non riuscendo, però, neppure a fare a meno di riconsegnare loro quel poco di mistero che tutto intero non afferra: “Ti troverò ancora appollaiata come un angelo / sui ramuccoli sottili come le falangi […]”

anna ruotolo

***

V)

È tarda primavera,
dormi con me su questo letto
di colza e di ginestre gialle.
Siedi, e poi stenditi
sulla cima, qui con me,
all’eremo più alto del Montefeltro.
Il tuo amore era un’amarena;
ricordi il suo liquore?
Quando si versa fa gli archetti nel bicchiere.
Denso, viscoso il verso
che fa uscendo dalle gambe
era morbido, vino di visciole:
con la nostalgia dello zucchero
e dell’aspro a cui s’ispira.
Tu dicesti,
chissà se intendi ferire i miei fianchi
senza torcere il cuore,
o stringerli tutti e due prima solo con le parole.
Poi con la pelle, il petto, le smorfie delle labbra,
tenendo gli occhi chiusi
per vedere meglio cosa mi farai dentro.


VII)

Nella zuccherosa notte di aprile,
a tempo col fiato delle foglie;
sui fianchi tuoi,
in assolo col miele dei tigli:
non ci siamo mai baciati.
Le parole erano petali,
verdi schiume e polline secco.
Il tempo voleva fare l’estate,
la potenza del nostro incontro distendersi
come la linfa delle gemme nelle vitamine dei frutti.
Le nostre confessioni, invece,
tiravano tardi a germogliare
le sillabe di marzo.
Mai ci siamo detti che ci amiamo.
Primavera s’allungava in una scia e trovava libertà;
noi vendevamo acerbi i nostri cuori
soltanto a piccoli sguardi.


IX)

Lasciaci stare;
se ti amerò per sempre non posso conoscerlo,
se mi sposerai per sempre tu non sai,
se per questo,
avrai abbastanza domeniche,
sufficienti primavere.
Mentre aspetterò senza guardarle,
sarà piacevole la mia contraddizione:
non reggere all’idea
che se ti toccherò le gambe
non sarò più di nessun’altra.
Mentre decideremo di avvicinarci,
le mie mani non sapranno,
quale legge le farà cadere sulle guance,
piuttosto che ovunque.
Ci ameremo,
senza essere,
tu ed io,
arbitrariamente liberi
di evitarne la paura,
la scelta
di non farlo accadere.


X)

Tienimi la mano,
la tua mano fantasma in inverno.
Io ti prego,
mentre di spalle
l’estate mi spinge
al bagno più tremendo.
Ora che il tuo corpo è morto
mi chiedo dove stavi prima.
Dimmi,
dov’è che sta la vita nelle persone?
Dov’è che fa radici?
Quale distretto delle membra morde alla gente
per resistere aggrappata tanti anni di passioni?
Che sia nel cuore?
O nelle ossa?
Tu la tenevi nella gonna
che ora ha perso il tuo odore e le tue molecole.
Sta nel riso? Nel chicco d’uva?
Dove sta?
Sta nel tuo smalto?
Nelle dita sottilissime?
Io ricordo:
semplicemente,
stava in quella graziosità,
quella tua di portare dei fiori sulla camicia.


XI)

Lasciami soltanto, se vuoi,
lo spicchio di Luna
del tuo piccolo sorriso.
Lasciami
il tuo spicchio di Luna,
che meritava sempre il perdono
quando mi tagliava con le falci,
bianche e rotonde.
In cambio
ti regalo le mie mani
con l’inganno di donartele,
senza dirti che i tuoi fianchi
non m’hanno mai permesso
di ritrarle.
Mi tengo uno spicchio
del tuo sorriso lunare;
lo prendo da quella sera che eravamo al mare
quando mi dicesti:
con la sabbia faremo un castello
e vivremo per sempre lì.
Quella volta io risposi
sì,
anch’io ti ho scelta:
ora per favore,
reggi per me
la mia paura.


XIV)

Ti attendo Novembre,
nel ferro freddo dello scorrimano
che scende in cantina
dove c’è vino forte per la sera,
che scende in giardino
dove l’incuria di un Sole canuto
ti sparge in migliaia di aghi.
Ti aspetto strutta sui cadaveri di marzo:
non ti si vede mai con gli occhi;
è l’olfatto a precederti senza appuntamento:
sei l’odore delle foglie,
dopo la pioggia, nella fossa dell’autunno.
Ti troverò ancora appollaiata come un angelo
sui ramuccoli sottili come le falangi:
nelle ombre degli alberi
che infilzano il muro della casa,
quelle che scompaiono alle cinque del pomeriggio
non appena che la Luna le ha crocifisse sull’asfalto.








Marco Pivato, di formazione chimico farmaceutico, si è specializzato in giornalismo scientifico alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste. Attualmente è redattore presso il gruppo del Quotidiano Nazionale. È membro della Società italiana di tossicologia (Sitox), dell’Unione giornalisti italiani scientifici (Ugis) e dell’Associazione stampa medica italiana (Asmi). Si occupa del rapporto tra scienza e società e in quest’ottica ha pubblicato “A poca voce” (Manni 2008), poemetto dedicato ai luoghi poetici della scienza con prefazione di Sergio Zavoli e un breve saggio sul rapporto tra scienza e poesia. Ha inoltre recentemente pubblicato “Il miracolo scippato” (Donzelli 2011). “Valmarecchia misteriosa” (Capitani editore, 2011), una guida in poesia, un cantico sulla natura di una delle più belle valli d’Italia, con prefazione di Sergio Zavoli, è in corso di pubblicazione.



(articolo già pubblicato in Giovin/astri di Kolibris)

mercoledì 1 giugno 2011

"Settembre", una poesia di Pietro Federico



Settembre

I nostri nomi ci consumano.
Dopo il battesimo ha più senso guardarci in silenzio
chiamarci per nome con voce sottile,
ma dove c’è un inizio c’è anche una fine.
Se l’erba non fosse che luce
indurita, ma flessibile, in pace
piegata alla voce del vento,
se fosse per noi dove si corre
o dove correvamo, il verde
che si aggrappa all’estate
in un prato quasi spento
dove l’ombra degli alberi si allunga e si disperde
e l’onda del sole si dimentica
le campane, il grano,
di avere in sé il cuore dorato
di ogni domenica.
Se erba non fosse parola o pensiero, ma un nome
allora correrei nel velo e nel chiarore
che si alza dal suo respiro,
ti lascerei riposare in silenzio, scalza,
nel dolore senz’affanno e senza colpa,
nella stanza dove su di te regnano i libri e la mia felpa,
in un addio chiamato speranza.


Pietro Federico vive a Milano e frequenta un Master di scrittura e produzione per la fiction e il cinema presso l’Università Cattolica. Si è laureato in Lettere con una tesi intitolata “Distanza e Visione – L’immagine nella poetica di T.S. Eliot e in quella di Giuseppe Ungaretti”.
Ha tradotto opere come “Tutto sembra indicare” del poeta spagnolo Jordi Virallonga, il poemetto “L’inconcevable” del poeta francese Jean-Baptiste Para, “La superstizione del divorzio” dell’autore inglese G.K. Chesterton e “La ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde.
Ha pubblicato una raccolta di poesie intitolata “Non nulla” nel 2003 presso la casa editrice Ibiskos di Empoli, un’altra intitolata “Alto il desiderio” presso la casa editrice Fara di Rimini in un’antologia intitolata “La coda della galassia”.
È direttore editoriale del progetto Dromos – concorso nazionale di traduzione letteraria per studenti universitari (www.concorsodromos.wordpress.com) presso Raffaelli Editore e membro al direttivo del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna.

lunedì 30 maggio 2011

Renata Morresi - "Nel traffico"



C’è nell’incipit della prosa, poco più sotto, di Renata Morresi la denuncia - da subito - di una sua prossimità naturale, prodigiosa (“non è difficile”, dice) alla materia poetica intesa come avvicinamento costante alla realtà umana forte, ricca di umori, anche perdente, ma sempre avvertita in un movimento/momento“comune”: “Non è difficile per me ricostruire “Nel traffico”, com'è nata allora, come continua a tutt'oggi. La sua architettura fa parte della città […]”.
Nel 2010 esce per i tipi di PeQuod l’opera prima di Renata, “Cuore comune”, appunto. Un libro in movimento che si fonda e sprofonda in comunità di sensazioni e condivisi modi di occupare la vita o, come qui, non-occuparla veramente. Ridurre tutto il senso e il buon peso della poesia di Renata in poche righe è da sprovveduti. In effetti parla per (noi) tutti il suo plurale e il coraggio nel guardare “ciò che è”, non quello che crediamo sia. Il salto è minimo, a ben vedere, ma il risultato è uno smottamento fondamentale, potente, inaspettato.


ar




***



Nel traffico




What do we know? We're just drivers

Che ne sappiamo? Guidiamo solo, noi

L'autista


Anche noi abbiamo visto il quartiere
a modo nostro riunito
le auto per colore e una maglietta
con le righe, con uno sforzo enorme
per comprendere gli avverbi
richiesto ai presenti d'essere tutti
attenti abbastanza a non mischiare
le immondizie, osservato la distesa
di pavimenti e porte
la spaventosa fiducia riposta
nel film preferito, nel giudizio
razionale, nella reazione a pelle,
la nostra intelligenza ornamentale.


Guidando attorno al blocco
su una giostra super-grande
scordando dove andiamo al non-lavoro
girandoci distratti da un pino
e da un tiglio o da un tiglio
e da un pino e gli altri vecchi
cittadini, continuatori del continuo
ed invidiati a vuoto, galleggiamo
sul cervello aggrappati alle scritte
sul muro come “sn morta”
o “tu sei il mio placebo”.


Vediamo il cantiere potenziale
ormai abraso, quasi sacro
messi in salvo da miracoli sfuggenti
le voci non previste dei passanti
che si cercano più umane: “siamo tutti
mezzi mezzi”, dalla solita canzone
che ci faccia dire ah, che ci faccia dire eh,
passare quasi candidi o schiantare
come gatti, rimasti a lingue secche
con le orbite sfondate per volere
più visione. Pensiamo come pazzi
e più generalmente ci perdiamo
senza uscire dal Comune
dal traffico o da questa
incorruttibile corruzione.


(da "Cuore comune", PeQuod 2010)


Non è difficile per me ricostruire “Nel traffico”, com'è nata allora, come continua a tutt'oggi. La sua architettura fa parte della città della spossatezza che mi è dato frequentare da quasi inoccupata, o precariamente occupata, o lavoratrice occasionale che dir si voglia.
Tornare a casa dopo aver accompagnato il bambino a scuola: tornare a cosa? Ci si perde facilmente, continuando a pensare in auto, continuando a girare a vuoto. L'unica concentrazione necessaria rimane l'attenzione diffusa, opaca, alla guida. Per il resto la mente galleggia, stranamente intima alle cose viste, alle cose provate. I materiali di costruzione di questo testo vengono quindi dalla gestione quotidiana del flusso di direzioni, indicazioni, superfici, facciate, stabili, portoni, cassonetti, cartelli, rotonde, bordure di siepi, viali alberati, scritte sui muri, tutti i posti che non abitiamo ma che ci afferiscono (che forse siamo).
Molte suggestioni anche dai poeti, naturalmente. Dizionario di quest'uomo – Dictionnaire de cet homme di Stéphane Bouquet, poeta (e danzatore) francese edito dalla Camera verde, ha ispirato la felicità per certe geometrie emotive (il “super grande”, “il non-lavoro”). Andrea Inglese (che – non incidentalmente, presumo – è il traduttore di Bouquet), più corposamente, ha offerto l'idea di distrazione: il processo di scivolamento in uno stato non funzionale, non produttivo, non previsto, svagato, incurante, e proprio per questo poroso. Attento ad altro. Non controllabile. Diciamo “poetico”.
Certo, non è mancata la tensione con un verso di Giovanna Sicari che mi ha sempre molto colpito: “Gesù, proteggimi dalla distrazione”. D'altronde il flâneur per definizione è maschio. Ed è la femmina che ha bisogno di 'stare attenta', specialmente in città, specialmente a rimanere in possesso di sé, a non dissolversi negli altri, nella cura degli altri, a rimanere lucida. A me capita questo, capita anche il contrario. Come dice un amico poeta, Danilo Mandolini, la soglia della deiezione e quella dell'infatuazione è la stessa. Solo un passo tra l'autocommiserazione e l'euforia. In mezzo sta non sapere niente di sé (immensamente). Non sapersene che fare di tanta “intelligenza ornamentale”.
L'altro poeta a cui devo qualcosa (molto, in realtà) è Adelelmo Ruggieri, che allora stava scrivendo un libro che ora non esiste più (o meglio, esiste in una forma molto diversa, col titolo Semprevivi). Da lui ho praticamente plagiato (inconsapevolmente) un verso, “che ci faccia dire ah...”, in cui porto in giro tutta la nostra smania poetante, tutte le nostre teorie di intellettuali originali e succubi, la nostra frenesia di sviscerare, di sentire di più, capire di più, che ci fa “schiantare”. Non sfugga però che una volta squagliato tutto (la polis, l'umano, il senso), rimane questa la cosa in comune.


Renata Morresi



Renata Morresi (Recanati, 1972) traduce e fa ricerca, si occupa di critica culturale e poesia. Ama sia gli esperimenti che certa elegia, il risultato lo chiama "lirismo astratto". Cuore comune, da poco uscito per Pequod, è la sua prima raccolta organica di poesie. Attualmente lavora come contrattista di Letteratura Americana presso l'Università di Padova. Sue poesie sono incluse in varie antologie e riviste, cartacee e on-line, tra cui Registro di poesia #4, di prossima pubblicazione per i tipi di d'if, Calpestare l'oblio, a cura di Davide Nota e Fabio Orecchini, La Gru, 2010, bina (31 agosto 2009), a cura di Marco Giovenale, Registro di poesia #2, a cura di Gabriele Frasca, d'if, Napoli, 2009, L'opera continua, a cura di Giampaolo Vincenzi, Perrone, Roma, 2005, Nodo sottile 4, a cura di Vittorio Biagini e Andrea Sirotti, Crocetti, Milano, 2004. È redattrice dei blog letterari La poesia e lo spirito, Absoluteville e Punto Critico. Dal 2001 collabora a realizzare la rassegna di poesia “Licenze Poetiche”, insieme all'omonima associazione culturale. Vive a Macerata con suo figlio.