mercoledì 6 giugno 2012

Valerio Grutt - "Una città chiamata le sei di mattina"




Valerio Grutt, napoletano, classe 1983, pubblica nel 2009 con le Edizioni della Meridiana la sua opera prima Una città chiamata le sei di mattina. Come sceneggiatore e regista ha realizzato alcuni video e, tra le altre numerose attività, collabora con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. La poesia di Grutt sembra avere a che fare con l’immagine di un calderone sempre ribollente dove pescare a piene mani e dove conviene anche bruciarsi perché questo giovane scrittore si impegna a riportare in versi e semplici teorie un’epica (faticosa, terribile ma affascinante) tutta personale da eroe contemporaneo e metropolitano, auto-investitosi (e poi, però, riconosciuto dal lettore) così un po’ per gioco un po’ per impossibilità di fare altrimenti. Allora tutte le evidenze semplici, i dettagli quotidiani di questa o quella esperienza normalissima, ogni vicissitudine ritratta, lampeggiano con una forza dirompente e impossibile da non notare. Il tratto impressionista dei versi, il rendere ciò che è già noto sotto un’altra forma, viva e immediatamente recepibile sulla retina dell’occhio, fa dei versi di Grutt una sorta di film che riproduce l’età più difficile e bruciante. Notoriamente la sconfitta, la disillusione, le pene d’amore cercano in ogni momento di rompere il guscio di ferro che scherma il poeta-eroe. Ma a ricomporre le ansie e le fratture sono la voglia di sfondare le linee nemiche e la consapevolezza della “possibilità”; sono queste cose che tentano una sintesi, una rimonta in senso pieno e positivo.

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a mio padre che sarà tra forbici e stelle





Quel giorno avevano chiuso agosto
con i limoni sugli occhi


non sapevo ancora niente

degli aperitivi e dei film di Burton


giocavo a pallone
con la maglia del portiere


al centro del grande zabaione
dove Napoli galleggia


nella sala d’attesa
tolsero l’acqua al pesce rosso


il dottor temporale disse di chiudere le porte rimaste socchiuse
ci caricarono il buio alla nuca e spararono


era un elefante con le gambe secche
e non ci volle molto a cadere


era l’ultima via Santa Lucia
che se ne andava timida dal golfo


hanno visto alzarsi in volo uno stormo
dalla piazza fredda del letto di mia madre


hanno tolto l’uomo
hanno sradicato le sue mani dalle mie


quando tornerà sarà davanti agli occhi di Antonio
e tra le braccia di Maria come il figlio che non ha


quando tornerà non sarà buio il corridoio
si siederà a tavola e dirà: “perché avete aspettato tanto…


potevate cominciare”.



*


se tu fossi stata innamorata di me
avrei trovato aperto un supermercato deserto
in cima alle stelle pieno di cioccolato

con gli scaffali lunghi del tempo rimasto sulle autostrade

e tu seduta nel carrello con un sorriso d’albero

avresti detto: voglio questo e voglio quello!

e invece patetico come l’uomo farò la fila con gli altri

e triste la cassiera mi darà il resto nel giorno grigio di un K.O.



*

Un giorno tornerai a Ischia lucente
isola sola, lontana mille anni dal mare.
L’abbronzatura all’oro degli anni
che brilla di notte al gelato d’agosto

e scale di case dall’aria salata
che increspa i capelli, e salite e discese dagli occhi.
A lui chiederai i capelli a cavatappi,
e di pettinarti giornate strappate all’abbraccio

della madre larga e del padre fascista
che ti compra le scarpe per camminare in campagna
e t’adotta alla zia che ti lascia una corda
per attaccare il sole a una sedia sul balcone.

Mamma che sfogli settimane enigmistiche,
e t’accendi al divano per le corde che stridono
dell’ascensore che mi porta al quarto piano.
Figlia di un marito scorpione e parrucchiere,

che giocava nella vita da angelo, tirato giù da un albero
a bere dagli spigoli le cose felici, tendeva una mano
al tuo sonno cattivo e tre figli, ti baciava sereno
come se non esistesse la pioggia ed il buio.

Tornerà la gioia del primo giradischi
la scoperta di cose naufragate nell’ombra.
Le ali aperte dei figli tuffati, alla buona pazienza
del cuore, di piazze, di auto al casello,

del respiro, vacanze, di sere finite
alla noia beata dell’essere soli.
Verrò a mangiare melanzane a funghetti,
all’alba del tuo sorriso preso a bellezza dei salti di uccelli.



*

Farei l'alba e le linee del cielo
con i segni lasciati dal cuscino
sul tuo volto appena sveglia, meraviglia
che ti togli dal sonno e vieni come gli uccelli
di giorno, la tua risata è chiamare il bene
per nome, alzi le reti dei fiori con lo sguardo.
Il fuoco e i confini, le sere gialle hanno la brezza
del tuo respiro, io ti sento esistere nel vento
che piega gli ombrelli, nel petto aperto
contro la notte che si abbassa addosso.
Voglio essere con te l'onda che s'alza
e si fa nuvola, fare come il polline chiaro
sui campi e la luce che libera gli angoli.









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La nota critica, con qualche variante, è apparsa in FAREPOESIA / Rivista di Poesia e Arte Sociale, N. 5 settembre 2011.