martedì 10 gennaio 2012

Jonata Sabbioni – “Al suo vero nome”



Jonata Sabbioni, Al suo vero nome, L’arcolaio, Forlì 2010, pp.71, €11,00

Se è vero che la terra camminata, l’aria respirata e i posti in cui viviamo informano il nostro essere, Jonata Sabbioni col suo libro d’esordio “Al suo vero nome” (L’arcolaio, Forlì 2010) ne è la conferma chiara ed incontrovertibile. Jonata vive a Fermo, in quella terra, la Marca, che partorisce e cresce poeti e che è colline e mari assieme. Quando penso alle Marche contemporanee (per limitarmi), penso a Eugenio De Signoribus, Umberto Piersanti, Gianni D’Elia, Davide Nota,  Adelelmo Ruggeri, Renata Morresi, Manuel Cohen, Filippo Davoli, Massimo Gezzi, Francesco Scarabicchi, Alessandro Moscè, Barbara Coacci, Evelina De Signoribus, Franca Mancinelli, Alessio Alessandrini (solo per citarne alcuni)… la linea marchigiana (che esiste o non esiste - è dibattuto - ma che, quantomeno, ha il pregio di riportare al resto della comunità poetica un discorso tenace di attraversamento convito e “regolare” del genus poesia) per me riconoscibile e materialmente tracciabile (come poche altre, oggi) con tutto il suo varissimo strumentario, tutta la forza che gli è propria. È un costruire, questa poesia marchigiana, dall’interno e dall’esterno, un fuoriuscire restando ancorati al proprio spazio vitale e prolifico. Bene lo spiega Stefano Guglielmin nel suo frequentatissimo blog “blanc de ta nuque” citando proprio Alessandrini e Cohen: “Cohen sembra rilanciare la possibilità che esista una linea marchigiana, una koinè, appunto, riconoscibile, così riagganciandosi ad una vecchia questione, che Alessio Alessandrini, in un commento su Nazione Indiana, redime mi pare in modo convincente. Egli parla "di una 'doppia frontiera' che il poeta marchigiano doveva superare; una duplice marginalità: interna, dovuta alla morfologia del territorio che isola ogni lucus per farlo divenire un hortus conclusus (una frammentazione geografica accentuata dalla pluralità linguistica), esterna, causata dalla posizione di confine (cfr: etimologia di Marca) della regione stessa. Marginalità e pluralità sono termini che si addicono al poeta marchigiano, ma sono anche caratteristiche che permettono allo stesso di aver alcune peculiarità. Proprio per questo inconscio desiderio di andare oltre la siepe, oltre la 'soglia del paese' (ndr: Alfredo Luzi), di giocarsela con 'L’infinito', la scrittura dei marchigiani si sostanzia per una doppia ansia: ansia interrogativa e ansia comunicativa. Oggi aggiungerei anche una sorta di vocazione alla immaginazione e all’ironia." (23/11/07)” [in blanc de ta nuque (http://golfedombre.blogspot.com), “Manuel Cohen”, 19 Settembre 2011].  

Ancora, nell’editoriale di Paolo Saggese del numero uno della rivista Poesia meridiana (Delta 3 edizioni, 2009) si fa riferimento alla geopoetica, ovvero quel collegamento di ferro tra poesie e luoghi. Non si può considerare, in definitiva, una poesia senza i suoi luoghi non solo sociali, ma naturali. Partendo da quest’assunto, meglio ci potrebbe chiarire le idee un passaggio di un saggio dei succitati Gezzi e Ruggeri sulla poesia marchigiana: “Porta marina. Viaggio a due nelle Marche dei poeti “(PeQuod, 2008). Cito: “I poeti marchigiani, a parte qualche eccezione, schivano lo sperimentalismo di tipo neoavanguardistico […]  preferendo un classicismo lirico moderno che non deraglia dalla tradizione poiché, come credeva uno dei poeti più alti del secondo Novecento (Franco Fortini), è solo trasmettendo la tradizione che si è in grado di fondare il futuro. I poeti marchigiani (non tutti, per la verità) sono argomentativi, perché hanno introiettato la grande lezione del pensiero poetante leopardiano […] di conseguenza, prediligono il messaggio e la comunicazione[…]”. Tenendo ferme le due ammissioni (che un po’ salvano dalle generalizzazioni e un po’ tutelano i ricompresi e pure gli esclusi; accontentano i convinti della teoria e quelli che non lo sono per niente) come “a parte qualche eccezione” e “non tutti, per la verità” mi sembrava quanto mai illuminante il passaggio per potere introdurre Sabbioni che, a buon diritto e nonostante la giovane età, si inserisce in questo gruppo a grandi linee definito e per tematiche e per un certo suo modo di procedere (lavoro interno ed esterno).

Prima di ogni cosa, nel libro di Jonata, riluce quest’appartenenza naturale: “sui luoghi della memoria stanno le pietre”: è solo in questa presa di coscienza primordiale che si può innestare una domanda di senso e destino rivolta alla natura, presenza insieme terreno-fisica e metafisica. Con una lingua educata e sobria Sabbioni tenta quel “segreto di secoli” che è l’esergo del libro e, insieme, un verso del lucido e garbatissimo prefatore Filippo Davòli. La memoria è dunque un serbatoio dal quale attingere con forza lingue e significati, il punto da dove cominciare una riflessione: “Partiamo da zero sempre / dovendo rifondare / da questi altissimi vuoti / nel terreno fertile” armandosi di un “silenzio pieno” e  “questo fresco pezzo di terra”. Il fondo delle valli, poi, un luogo antico e dal duplice valore (fisico e filosofico), aggiusta il tiro, è una discesa consapevole nell’io, nel concetto dell’essere vivi e presenti anche nella storia perché partecipi di quel luogo circoscritto che, in definitiva, è contenuto nel mondo tutto (ecco il senso bipolare del singolare/plurale). Anche il rapporto col “tu” fisico si immerge in un silenzio liquido, acquoso e generante. Tutta questa architettura di significato non è lanciata con forza verso il lettore, piuttosto appare con una naturalezza nitida dai testi, nel loro disporsi in un movimento di emanazione, un chiarimento che arriva da una poesia all’altra, seguendo un iter ideale e, per quel che si può, anche logico. È un credo recitato, quello di Sabbioni, una nettezza di confini confessati, una compartecipazione alla propria terra che è debito presto detto ma anche la grande forza della parola che si nutre di primarietà “Io appartengo alla terra […] Conosco ogni nome, ogni approdo, ogni partenza;”  e che sa ben fermarsi di fronte al mistero, se incombe “Ti amo, mistero di me /stesso, possesso insoluto”. Con questa consapevolezza di conoscenza e oscurità insieme, si stende la “linea che imposterà i secoli” ed è una “lieta miseria” comprendere e non comprendere allo stesso tempo poiché se si arrivasse al bandolo sarebbe un peccato, un arresto non contemplato. Questo è un tendere all’infinito che non si può avere tutto ma è fondamentale perché rappresenta un lanciarsi verso che possiede la memoria e il prima. Solo così si può passare oltre, tentare la conoscenza di un vero nome. Tant’è vero che la prima sezione del libro dedicata alla memoria, chiude il suo cerchio con l’ultima evocativa poesia di pag. 28 dove un “Eppure c’è stato” richiama il Montale di Satura: “E allora che resta? Un niente che è tutto”. Qui Jonata va oltre i grandi, crea il proprio testamento, rimanda alla sua appartenenza, tutta e tutta quanta, la soluzione e prepara la piattaforma di lancio. Ancora il seme, la terra. La sua terra. L’approssimazione alla Madre Natura preparata e accennata nella prima sezione fiorisce definitivamente nella seconda dove riferimenti biblici si alternano a momenti di sorprendente discesa nel pensiero, di accostamento caparbio e poi rispettoso – quasi sacrale – alla dimensione umana, corruttibile (“noi ci siamo fatti per lui / cibo appassito”).
Tutta l’evidenza che il poeta raccoglie è, infine, posta al vaglio di quei testimoni oculari che abbiamo da sempre e per sempre accanto (così nella terza sezione).
Qui un plurale (ecco l’apertura) – che è l’unica cosa certa – esplora e chiede conferma, afferma e dubita, ammette i propri limiti, annulla il tempo e ne dà conto.
L’odio che è “urlo della Storia” confonde ma non impedisce di scrivere ancora con il cuore. Perché, citando Pasolini, la poesia è anche salvezza. Ma Jonata lo dice con quella sua confessione di “speranza millenaria” e rendendoci chiaro il nostro compito: essere vettori di salvezza e di speranza. Bisogna restituire ciò che ci è dato in comodato d’uso, la terra provvisoria, dunque, e “ovunque tendere la nostra voce tramandata”.


Anna Ruotolo



Jonata Sabbioni è nato a Amandola (FM) nel 1985 e vive a Fermo. Ha partecipato a concorsi nazionali di poesia risultando in diverse occasioni tra i finalisti premiati: Menzione Speciale al Premio Cosseria (Savona, 2005), Menzione Speciale al Premio Cantone (Forlì, 2006), finalista al Concorso Cairoli (Varese, 2007). È direttore del periodico di attualità e cultura lAforisma e socio e collaboratore di Radio Incredibile. "Al suo vero nome" (L'Arcolaio, Forlì, 2010) è la sua opera prima.

6 commenti:

  1. sottoscrivo ogni parola, Anna.
    questo è uno dei non rari gioielli di poesia che ha trovato modo di uscire allo scoperto grazie all'Arcolaio e al sempre più unico e raro Fabbri.
    mi permetto di condividere la tua lettura nel mo diario facebook.
    grazie

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  2. sono contenta della duplice condivisione, Fabio :)
    Un abbraccio.

    a.

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  3. Fabio, troppo gentile! Sono onorato io, invece, che il mio Jonata (il nostro, in effetti) sia ospite della deliziosa Anna. Grazie, cara amica: di tutto cuore. La cifra stilistica di Sabbioni è superlativa, se rapportata alla giovanissima età dello stesso poeta!
    Un anno Favoloso, pieno di cose belle - Ad Anna e Fabio e al caro Jonata-.
    Gianfranco

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  4. Trovo adesso questo lungo pensiero di Anna Ruotolo. Ti ringrazio, Anna: la poesia, che ci accomuna come cercatori di radura, è uno spazio che inizia e che non ha fine. Non resta che ascoltare...

    Grazie, per sempre a Gianfranco.

    Jonata Sabbioni

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  5. Sono lieto di aver tenuto a battesimo Jonata Sabbioni e di averlo, per così dire, scoperto e intuito una quindicina d'anni fa. E parimenti sono lieto che l'amico Fabbri, col suo fiuto niente male, lo abbia accolto. L'unico dispiacere è di non essere riuscito ad averlo come primo autore della collana che dirigo per L'Arcolaio. Sarebbe stato un bel compimento. Ma forse è meglio così; perché, come Jonata ama ricordare, questo è solo l'inizio...

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  6. grazie dei passaggi. Sono contenta di leggervi qui.
    Un caro saluto a tutti e tre.

    anna

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