mercoledì 19 settembre 2012

"Spero nei progressi della scienza", una poesia di Gervasio Muratori




A pensarci
ci vorrebbe un
clone,
che ti clonassero,
una clonazione
un pochetto guidata, però,
non eliminando nessuno
dei tuoi geni
ma diminuendo un pochino,
solo un pochino,
il gene della complicazione
e aumentando
quello della fiducia.

E poi
ci vorrebbe un incontro.

Spero nei progressi della
scienza
e
nella bontà del
caso.




Gervasio Muratori vive tra Napoli e Caserta. E' laureato in Lettere moderne.

mercoledì 6 giugno 2012

Valerio Grutt - "Una città chiamata le sei di mattina"




Valerio Grutt, napoletano, classe 1983, pubblica nel 2009 con le Edizioni della Meridiana la sua opera prima Una città chiamata le sei di mattina. Come sceneggiatore e regista ha realizzato alcuni video e, tra le altre numerose attività, collabora con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. La poesia di Grutt sembra avere a che fare con l’immagine di un calderone sempre ribollente dove pescare a piene mani e dove conviene anche bruciarsi perché questo giovane scrittore si impegna a riportare in versi e semplici teorie un’epica (faticosa, terribile ma affascinante) tutta personale da eroe contemporaneo e metropolitano, auto-investitosi (e poi, però, riconosciuto dal lettore) così un po’ per gioco un po’ per impossibilità di fare altrimenti. Allora tutte le evidenze semplici, i dettagli quotidiani di questa o quella esperienza normalissima, ogni vicissitudine ritratta, lampeggiano con una forza dirompente e impossibile da non notare. Il tratto impressionista dei versi, il rendere ciò che è già noto sotto un’altra forma, viva e immediatamente recepibile sulla retina dell’occhio, fa dei versi di Grutt una sorta di film che riproduce l’età più difficile e bruciante. Notoriamente la sconfitta, la disillusione, le pene d’amore cercano in ogni momento di rompere il guscio di ferro che scherma il poeta-eroe. Ma a ricomporre le ansie e le fratture sono la voglia di sfondare le linee nemiche e la consapevolezza della “possibilità”; sono queste cose che tentano una sintesi, una rimonta in senso pieno e positivo.

ar








a mio padre che sarà tra forbici e stelle





Quel giorno avevano chiuso agosto
con i limoni sugli occhi


non sapevo ancora niente

degli aperitivi e dei film di Burton


giocavo a pallone
con la maglia del portiere


al centro del grande zabaione
dove Napoli galleggia


nella sala d’attesa
tolsero l’acqua al pesce rosso


il dottor temporale disse di chiudere le porte rimaste socchiuse
ci caricarono il buio alla nuca e spararono


era un elefante con le gambe secche
e non ci volle molto a cadere


era l’ultima via Santa Lucia
che se ne andava timida dal golfo


hanno visto alzarsi in volo uno stormo
dalla piazza fredda del letto di mia madre


hanno tolto l’uomo
hanno sradicato le sue mani dalle mie


quando tornerà sarà davanti agli occhi di Antonio
e tra le braccia di Maria come il figlio che non ha


quando tornerà non sarà buio il corridoio
si siederà a tavola e dirà: “perché avete aspettato tanto…


potevate cominciare”.



*


se tu fossi stata innamorata di me
avrei trovato aperto un supermercato deserto
in cima alle stelle pieno di cioccolato

con gli scaffali lunghi del tempo rimasto sulle autostrade

e tu seduta nel carrello con un sorriso d’albero

avresti detto: voglio questo e voglio quello!

e invece patetico come l’uomo farò la fila con gli altri

e triste la cassiera mi darà il resto nel giorno grigio di un K.O.



*

Un giorno tornerai a Ischia lucente
isola sola, lontana mille anni dal mare.
L’abbronzatura all’oro degli anni
che brilla di notte al gelato d’agosto

e scale di case dall’aria salata
che increspa i capelli, e salite e discese dagli occhi.
A lui chiederai i capelli a cavatappi,
e di pettinarti giornate strappate all’abbraccio

della madre larga e del padre fascista
che ti compra le scarpe per camminare in campagna
e t’adotta alla zia che ti lascia una corda
per attaccare il sole a una sedia sul balcone.

Mamma che sfogli settimane enigmistiche,
e t’accendi al divano per le corde che stridono
dell’ascensore che mi porta al quarto piano.
Figlia di un marito scorpione e parrucchiere,

che giocava nella vita da angelo, tirato giù da un albero
a bere dagli spigoli le cose felici, tendeva una mano
al tuo sonno cattivo e tre figli, ti baciava sereno
come se non esistesse la pioggia ed il buio.

Tornerà la gioia del primo giradischi
la scoperta di cose naufragate nell’ombra.
Le ali aperte dei figli tuffati, alla buona pazienza
del cuore, di piazze, di auto al casello,

del respiro, vacanze, di sere finite
alla noia beata dell’essere soli.
Verrò a mangiare melanzane a funghetti,
all’alba del tuo sorriso preso a bellezza dei salti di uccelli.



*

Farei l'alba e le linee del cielo
con i segni lasciati dal cuscino
sul tuo volto appena sveglia, meraviglia
che ti togli dal sonno e vieni come gli uccelli
di giorno, la tua risata è chiamare il bene
per nome, alzi le reti dei fiori con lo sguardo.
Il fuoco e i confini, le sere gialle hanno la brezza
del tuo respiro, io ti sento esistere nel vento
che piega gli ombrelli, nel petto aperto
contro la notte che si abbassa addosso.
Voglio essere con te l'onda che s'alza
e si fa nuvola, fare come il polline chiaro
sui campi e la luce che libera gli angoli.









Per visitare il sito ufficiale di Valerio, clicca qui

La nota critica, con qualche variante, è apparsa in FAREPOESIA / Rivista di Poesia e Arte Sociale, N. 5 settembre 2011.

mercoledì 18 aprile 2012

Luciano Mazziotta - "Promemoria"







C'è una sorta di precisa chirurgia nella scrittura di Luciano Mazziotta, sia che si tratti di sue produzioni, sia che si tratti di critica su scritture altrui. Non sarà certo un caso che Luciano si sia dedicato, nei suoi anni universitari, allo studio di testi antichi circa il rapporto tra medicina e filosofia. Mazziotta, classe 1984, che ha esordito nel 2009 con "Città biografiche" (ed. Zona) è un classicista ma ha assorbito nel tempo tutta una serie di imprescindibili presenze novecentesche, virando più verso schemi, stili (e linee) sperimentali ma conoscendo anche l'opposto di questi, in un lavoro costante e densissimo. Se nel suo libro d'esordio spiccava una propensione alla decodificazione del linguaggio, alla sua destrutturazione e ricomposizione secondo linee e significati sghembi, mettendo a punto virate e ricomposizioni illuminanti e - a tratti - anche stranianti, negli ultimi testi (pubblicati anche su Nazione Indiana) la "nuova" ricerca si snoda attraverso un linguaggio più piano, decisamente rappacificato con i segnali esterni, dunque solidissimo, ma affonda poi (e questo è il punto estremamente interessante) in una dimensione di segni all'apparenza impercettibili, fischi e inciampi, strutture-dietro-le-strutture che costituiscono il mondo sommerso col quale fare i conti dal mondo emerso. Il godibile testo in prosa - a corredo del suo inedito, Promemoria (da "Previsioni e lapsus") - che mi ha mandato parla da sé, spiega benissimo il senso di questa mia brevissima incursione nelle sue intenzioni.





Promemoria



...e dei lapsus, che farne dei lapsus?
Se ogni volta che inciampi interrompi
un tuo ciclo vitale, è per perdere il filo,
per riprendere fiato e iniziare
da un indizio non valutato.



La linea si spezza: è naturale si spezzi.
Prendi ad esempio la Karl-Marx-Allee:
la memoria è geometrica, la storia è
compatta, compatto è l'asfalto:
non ci sono buche né vuoti.
Gli edifici non ammettono fughe
né pause, se pausa è un salto tra tempi,
da un ordine ordinario a un atto involontario:
come quando ti chiamo col nome
cui vagamente pensavo e diventi
proiezione casuale di una faccia
che niente ha a che fare con l'originale.



Sì, ma dei lapsus, quanti lapsus
per fare una storia? In un'eternità
avremo tutt'al più formato un ricordo,
una vaga sensazione di memoria -
come quel rumore intermittente
della freccia avvertito in dormiveglia
dopo un lungo tratto di autostrada.



Risvegliarsi è avere scelta: uscire
dai percorsi obbligati, incontrare
tombini e sostare.
Non sono eventi ma dati,
interferenze che tessono
un tappeto di dettagli marginali
al di sotto della microstoria:
sbadigli distrazioni impulsi
o scarti
necessari:
come le parole
dette giornalmente in modo compulsivo:



tu inciampi su reperti pentole cucchiai
conservati in pessimo stato e da qui
io ti scrivo.









Piccola nota giornaliera.
Nel De memoria et reminiscentia Arisotele sostiene che ogni nostra prassi, ogni nostra azione resta "impressa", quasi come un corpuscolo, nella nostra mente, trasformandosi col tempo in quello strano fenomeno chiamato "ricordo". Non so a cosa si riferisca Aristotele in questo passo ma so benissimo che le nostre azioni sono in grande percentuale non volontarie né tanto meno eclatanti. Muoviamo braccia, diciamo parole a caso, e agiamo molto più spesso senza alcuna consapevolezza. Il cuore è un muscolo involontario e le ciglia sbattono quasi di nascosto. Per non parlare degli starnuti, del respiro di cui sappiamo dire qualcosa solo quando manca. Queste azioni non esistono eppure è la loro somma che crea una vita. La linearità della memoria coatta non permette scivolamenti: e per questo bisogna interrogarsi tra l'immenso vuoto che separa Memoria e memoria. La maiuscola non è di poco conto. Un sistema condiviso come la Memoria non può che procedere per approssimazione, non può che non escludere dal suo sistema ciò che il sistema stesso ha definito "trascurabile". Ho voluto per un giorno oppormi a questa forma di anamnesi malata ma diffusa. Ho cercato di trascurare i mirabilia approssimati. Ho comprato un taccuino e ho deciso di annotare tutto ciò che componeva la mia giornata: un totale di 159 sbadigli, 97 stiracchiamenti, indefiniti movimenti delle mani che si aggirano intorno ai 30-40 per secondo. Ho mangiato più di tre volte ma purtroppo non sono riuscito a contare tutte le volte che ho sbattuto le ciglia. Ho chiamato una persona con un altro nome per 5 volte, pur non pensando all'altro nome, forse per una strana coincidenza che tra un morso alle labbra e un passo è diventata significante. A fine giornata ero così stanco, tanto stanco che mi sembrava di aver abitato un'altra dimensione: avrei ricordato per tutta la vita i miei sbadigli di quel 13 Maggio 2011. Avrei ricordato quante volte ho scrocchiato le dita e quante chiamate ho ricevuto: 2 in totale più una chiamata senza risposta (in questo mi sono aiutato, certo, con la memoria del mio cellulare). La mia giornata si era iscritta nella storia perché avevo fatto qualcosa di così tanto strano: pensare di aver fatto altro per fare tutto il resto, e soprattutto ricordare più l'altro che il resto.

L. Mazziotta





Luciano Mazziotta è nato a Palermo nel 1984. Specializzato in Scienze dell’antichità con una tesi in Testi greci filosofici e scientifici sul rapporto tra medicina e filosofia. Tra il 2006 e il 2008 ha vissuto tra Palermo ed Amburgo, città conosciuta nel 2006 nei panni di studente Erasmus. Nel 2009 ha pubblicato la sua prima silloge di poesie Città biografiche per la casa editrice Zona. Suoi testi sono stati pubblicati sui blog "Nazione Indiana", “La dimora del tempo sospeso”, “Via delle belle donne”, "Absolutepoetry", "Imperfetta Ellisse" e "Poetarum silva" di cui è anche redattore. Ha curato la Prefazione del volume miscellaneo che raccoglie i testi dei redattori di Poetarum Silva (Samizdat 2010). Nel Dicembre 2010 suoi testi sono stati inclusi nel 21° numero della rivista internazionale di letteratura “Poeti e poesia” diretta da Elio Pecora. Ha partecipato a readings ed eventi letterari di rilievo nazionale quali “La bellezza e la rovina” tenutosi a Palermo nel luglio 2010, il V° festival internazionale di poesia di Caltagirone, l'incontro sulla poesia contemporanea "A che punto del discorso. Poeti italiani di oggi" tenutosi a Pisa nel Maggio 2011 e "La notte della poesia. Il rito della luce" di Castelbuono. Da Marzo a Settembre 2011 ha vissuto a Berlino qualità di Post-Graduate Student presso la Humboldt Universitaet zu Berlin. Ora vive a Palermo in attesa di un'illuminazione.

martedì 17 aprile 2012

Due poesie di Salvatore D'Ambrosio

Previati, "Meriggio"



Immutabile apparenza

C’è una precisione di distanze
un equilibrio di misure
una geometria perfetta in sapiente
calcolato rapporto tra luce e buio
preordinato assetto dell’immutabile apparenza
matematiche esattezze sconosciute eppure certe
nell’invisibile mondo oltre il potere dell’occhio
dove l’esistere di pianeti orfani di stelle
solitario vagare nello spazio

Qui dall’altra parte
dove coperta di cielo poco riflette
precisioni distanze equilibri
solo vagare non altro
senza mai trovare di brillio riferimento
o dei passi l’orma permanente



 
Quietezza


Dove sono stato finora
per leggere Baudelaire a sessant’anni?
Dove ho sprecato la mia vita?


Sono stato dove sei stata anche tu
che chiedi e vuoi risposte, e dimentichi le attese
ché un vento sconosciuto senza nome
la smettesse di scarruffarci la vita.
Pesi, invidie, maldicenze, inganni,
enigmi, miscugli di colori e tinte inusitate,
caparra versata interamente e con sacrificio,
mentre s’aspettava che il tempo ci desse ragione.


Io e la mia vita cribro ed ostaggio delle ragioni del tempo!


Mentre l’unica cosa che graffiava ancora
era la grezza iuta sulla quale sconfitto adagiavo le spalle,
mi adopravo disperatamente alla fornace il fuoco
perché dovevo mostrarmi ancora
appiglio sicuro per chi mi aveva visto roccia.
T’invidiavo un poco per la tua serena caparbia resistenza,
fatto naturale di donna
custode di anatema di Eva.

Adesso siamo qui
in questa conquistata pigra banalità
dove io leggo tu cuci e ne siamo fieri
perché sapevamo che nessuno ci avrebbe insegnato
a riconoscere l’alba quando s’infila
nel limitare del buio della notte.




Salvatore D’Ambrosio, nato a Napoli, vive attualmente a Caserta. Professore in pensione, giornalista pubblicista, studioso di storia dei Borbone, ha scritto per oltre due decenni di Storia delle Poste su riviste specializzate. Partecipa da oltre venti anni a concorsi letterari in tutta Italia vincendo, nel tempo, il Premio Histonium nelle sue diverse sezioni, il Premio “Stolfi”Potenza, il Premio biennale di libro edito del Pollino, il Premio“Sandrina Miele” di Cassino, il Premio Laurentum, il premio “Esposito” Sorrento, il premio “Agostino Pensa” di Terni e il Premio Peter Russell - Napoli. Ha pubblicato nel 1989 uno studio sulla Storia postale dell’antica Terra di Lavoro (oggi provincia di Caserta) e l’opera prima di poesia “Barcollando nell’indicibile” (Bastogi editrice, 2009).

martedì 13 marzo 2012

Paolo Ruffilli - "Affari di cuore"

"Poesia" (Crocetti), Marzo 2012, num. 269

In Lo scaffale di Poesia una mia recensione al libro di Paolo Ruffilli: "Affari di cuore", Einaudi, Torino 2011, pp.138, euro 12,00



martedì 10 gennaio 2012

Jonata Sabbioni – “Al suo vero nome”



Jonata Sabbioni, Al suo vero nome, L’arcolaio, Forlì 2010, pp.71, €11,00

Se è vero che la terra camminata, l’aria respirata e i posti in cui viviamo informano il nostro essere, Jonata Sabbioni col suo libro d’esordio “Al suo vero nome” (L’arcolaio, Forlì 2010) ne è la conferma chiara ed incontrovertibile. Jonata vive a Fermo, in quella terra, la Marca, che partorisce e cresce poeti e che è colline e mari assieme. Quando penso alle Marche contemporanee (per limitarmi), penso a Eugenio De Signoribus, Umberto Piersanti, Gianni D’Elia, Davide Nota,  Adelelmo Ruggeri, Renata Morresi, Manuel Cohen, Filippo Davoli, Massimo Gezzi, Francesco Scarabicchi, Alessandro Moscè, Barbara Coacci, Evelina De Signoribus, Franca Mancinelli, Alessio Alessandrini (solo per citarne alcuni)… la linea marchigiana (che esiste o non esiste - è dibattuto - ma che, quantomeno, ha il pregio di riportare al resto della comunità poetica un discorso tenace di attraversamento convito e “regolare” del genus poesia) per me riconoscibile e materialmente tracciabile (come poche altre, oggi) con tutto il suo varissimo strumentario, tutta la forza che gli è propria. È un costruire, questa poesia marchigiana, dall’interno e dall’esterno, un fuoriuscire restando ancorati al proprio spazio vitale e prolifico. Bene lo spiega Stefano Guglielmin nel suo frequentatissimo blog “blanc de ta nuque” citando proprio Alessandrini e Cohen: “Cohen sembra rilanciare la possibilità che esista una linea marchigiana, una koinè, appunto, riconoscibile, così riagganciandosi ad una vecchia questione, che Alessio Alessandrini, in un commento su Nazione Indiana, redime mi pare in modo convincente. Egli parla "di una 'doppia frontiera' che il poeta marchigiano doveva superare; una duplice marginalità: interna, dovuta alla morfologia del territorio che isola ogni lucus per farlo divenire un hortus conclusus (una frammentazione geografica accentuata dalla pluralità linguistica), esterna, causata dalla posizione di confine (cfr: etimologia di Marca) della regione stessa. Marginalità e pluralità sono termini che si addicono al poeta marchigiano, ma sono anche caratteristiche che permettono allo stesso di aver alcune peculiarità. Proprio per questo inconscio desiderio di andare oltre la siepe, oltre la 'soglia del paese' (ndr: Alfredo Luzi), di giocarsela con 'L’infinito', la scrittura dei marchigiani si sostanzia per una doppia ansia: ansia interrogativa e ansia comunicativa. Oggi aggiungerei anche una sorta di vocazione alla immaginazione e all’ironia." (23/11/07)” [in blanc de ta nuque (http://golfedombre.blogspot.com), “Manuel Cohen”, 19 Settembre 2011].  

Ancora, nell’editoriale di Paolo Saggese del numero uno della rivista Poesia meridiana (Delta 3 edizioni, 2009) si fa riferimento alla geopoetica, ovvero quel collegamento di ferro tra poesie e luoghi. Non si può considerare, in definitiva, una poesia senza i suoi luoghi non solo sociali, ma naturali. Partendo da quest’assunto, meglio ci potrebbe chiarire le idee un passaggio di un saggio dei succitati Gezzi e Ruggeri sulla poesia marchigiana: “Porta marina. Viaggio a due nelle Marche dei poeti “(PeQuod, 2008). Cito: “I poeti marchigiani, a parte qualche eccezione, schivano lo sperimentalismo di tipo neoavanguardistico […]  preferendo un classicismo lirico moderno che non deraglia dalla tradizione poiché, come credeva uno dei poeti più alti del secondo Novecento (Franco Fortini), è solo trasmettendo la tradizione che si è in grado di fondare il futuro. I poeti marchigiani (non tutti, per la verità) sono argomentativi, perché hanno introiettato la grande lezione del pensiero poetante leopardiano […] di conseguenza, prediligono il messaggio e la comunicazione[…]”. Tenendo ferme le due ammissioni (che un po’ salvano dalle generalizzazioni e un po’ tutelano i ricompresi e pure gli esclusi; accontentano i convinti della teoria e quelli che non lo sono per niente) come “a parte qualche eccezione” e “non tutti, per la verità” mi sembrava quanto mai illuminante il passaggio per potere introdurre Sabbioni che, a buon diritto e nonostante la giovane età, si inserisce in questo gruppo a grandi linee definito e per tematiche e per un certo suo modo di procedere (lavoro interno ed esterno).

Prima di ogni cosa, nel libro di Jonata, riluce quest’appartenenza naturale: “sui luoghi della memoria stanno le pietre”: è solo in questa presa di coscienza primordiale che si può innestare una domanda di senso e destino rivolta alla natura, presenza insieme terreno-fisica e metafisica. Con una lingua educata e sobria Sabbioni tenta quel “segreto di secoli” che è l’esergo del libro e, insieme, un verso del lucido e garbatissimo prefatore Filippo Davòli. La memoria è dunque un serbatoio dal quale attingere con forza lingue e significati, il punto da dove cominciare una riflessione: “Partiamo da zero sempre / dovendo rifondare / da questi altissimi vuoti / nel terreno fertile” armandosi di un “silenzio pieno” e  “questo fresco pezzo di terra”. Il fondo delle valli, poi, un luogo antico e dal duplice valore (fisico e filosofico), aggiusta il tiro, è una discesa consapevole nell’io, nel concetto dell’essere vivi e presenti anche nella storia perché partecipi di quel luogo circoscritto che, in definitiva, è contenuto nel mondo tutto (ecco il senso bipolare del singolare/plurale). Anche il rapporto col “tu” fisico si immerge in un silenzio liquido, acquoso e generante. Tutta questa architettura di significato non è lanciata con forza verso il lettore, piuttosto appare con una naturalezza nitida dai testi, nel loro disporsi in un movimento di emanazione, un chiarimento che arriva da una poesia all’altra, seguendo un iter ideale e, per quel che si può, anche logico. È un credo recitato, quello di Sabbioni, una nettezza di confini confessati, una compartecipazione alla propria terra che è debito presto detto ma anche la grande forza della parola che si nutre di primarietà “Io appartengo alla terra […] Conosco ogni nome, ogni approdo, ogni partenza;”  e che sa ben fermarsi di fronte al mistero, se incombe “Ti amo, mistero di me /stesso, possesso insoluto”. Con questa consapevolezza di conoscenza e oscurità insieme, si stende la “linea che imposterà i secoli” ed è una “lieta miseria” comprendere e non comprendere allo stesso tempo poiché se si arrivasse al bandolo sarebbe un peccato, un arresto non contemplato. Questo è un tendere all’infinito che non si può avere tutto ma è fondamentale perché rappresenta un lanciarsi verso che possiede la memoria e il prima. Solo così si può passare oltre, tentare la conoscenza di un vero nome. Tant’è vero che la prima sezione del libro dedicata alla memoria, chiude il suo cerchio con l’ultima evocativa poesia di pag. 28 dove un “Eppure c’è stato” richiama il Montale di Satura: “E allora che resta? Un niente che è tutto”. Qui Jonata va oltre i grandi, crea il proprio testamento, rimanda alla sua appartenenza, tutta e tutta quanta, la soluzione e prepara la piattaforma di lancio. Ancora il seme, la terra. La sua terra. L’approssimazione alla Madre Natura preparata e accennata nella prima sezione fiorisce definitivamente nella seconda dove riferimenti biblici si alternano a momenti di sorprendente discesa nel pensiero, di accostamento caparbio e poi rispettoso – quasi sacrale – alla dimensione umana, corruttibile (“noi ci siamo fatti per lui / cibo appassito”).
Tutta l’evidenza che il poeta raccoglie è, infine, posta al vaglio di quei testimoni oculari che abbiamo da sempre e per sempre accanto (così nella terza sezione).
Qui un plurale (ecco l’apertura) – che è l’unica cosa certa – esplora e chiede conferma, afferma e dubita, ammette i propri limiti, annulla il tempo e ne dà conto.
L’odio che è “urlo della Storia” confonde ma non impedisce di scrivere ancora con il cuore. Perché, citando Pasolini, la poesia è anche salvezza. Ma Jonata lo dice con quella sua confessione di “speranza millenaria” e rendendoci chiaro il nostro compito: essere vettori di salvezza e di speranza. Bisogna restituire ciò che ci è dato in comodato d’uso, la terra provvisoria, dunque, e “ovunque tendere la nostra voce tramandata”.


Anna Ruotolo



Jonata Sabbioni è nato a Amandola (FM) nel 1985 e vive a Fermo. Ha partecipato a concorsi nazionali di poesia risultando in diverse occasioni tra i finalisti premiati: Menzione Speciale al Premio Cosseria (Savona, 2005), Menzione Speciale al Premio Cantone (Forlì, 2006), finalista al Concorso Cairoli (Varese, 2007). È direttore del periodico di attualità e cultura lAforisma e socio e collaboratore di Radio Incredibile. "Al suo vero nome" (L'Arcolaio, Forlì, 2010) è la sua opera prima.