Questo articolo è già apparso in Farepoesia num. 6 Marzo 2012 - Anno 3
Geografie variabili
Quattro poeti campani
Che il titolo (ripreso da una
sezione dell’ultimo lavoro di Stelvio Di Spigno,“La nudità”) sia utilizzato in
riferimento a quattro poeti di una stessa regione e che poi, nel suo
significato, distingua diverse geografie non è una stravaganza o, meglio, forse
lo è ma, sicuramente, è anche un gioco innocuo e funzionale al senso della
breve incursione nei testi e negli intenti dei quattro autori qui presentati.
Detto questo, si possono paragonare i quattro poeti scelti (senza presunzione
di esaurire, ovviamente, la conoscenza di tutta la giovane poesia campana contemporanea)
ad altrettante radici di un albero. Ognuna parte dello stesso tronco ma ognuna
è destinata a tracciarsi un proprio solco, una propria perfetta direzione.
Queste quattro voci, infatti, hanno poche cose in comune ma, viste ognuna nella
propria singolarità e specialità, possono rimandare indietro una mappa
variopinta e interessante dalla quale riprendere, più in là e con buona volontà,
si spera, un percorso/discorso più profondo e capillare di conoscenza e
analisi.
Memoria dell’albero capovolto (Lampi
di stampa, 2010) è l’ultima pubblicazione di Adriano Napoli, salernitano,
classe 1973, insegnante di lettere, poeta, traduttore e critico. Tracciare un
percorso onnicomprensivo della poesia di Napoli pare difficile, tanto più
perché il suo lavoro si snoda in un arco temporale già importante. Mi limito,
dunque, all’ultima valida prova dove l’elemento albero è una presenza che
lenisce le stanchezze e un mito da conoscere, ri-conoscere e ripetere. La
materia che Napoli padroneggia è un macromondo dove fare i conti con le rotture
e le stravaganze della modernità, nel recupero di un tempo sicuro,
imprescindibile, austero ma felice che è dentro l’infanzia. Così, è il poeta
che deve trattenere la memoria delle cose andate via o messe troppo da parte.
Ma il poeta è anche (e nel reale del Napoli e nell’ideale suo proprio, dunque
in una coincidenza felice) un insegnante, il depositario di una bellezza semplice
e sempre valida da tramandare con amore e dedizione. Sa slanciare (in un’identificazione
con la natura che sembra premere con grazia sulla sua guancia, sulle sue mani,
sui suoi occhi), così, i nomi di coloro che incrocia tra i banchi di scuola dal
suo tronco verso il cielo, mostrando, con tenacia ma senza invasività, l’altra
metà della medaglia, le ferite, le scorciatoie le quali hanno permesso che
tutti perdessimo qualcosa (e, infatti, solo facendo i conti con le perdite
appare intatto il verde che non muore mai). Tutto questo perché almeno il senso
profondo, almeno il sentimento, possano tendere all’alto, a ciò che resiste
sempre incontaminato.
Parco Ducale
Questo parco ha parole per tutti
ed alberi carezzevoli che scendono
ad ogni alba sulle ferite mortali,
esce furtivo dalla nebbia con il passo
esitante dei bambini quando tornano a casa
con le scarpe infangate o il giubbotto sdrucito,
una poltiglia di gelo è il bianco pallone
da calciare sotto il grugno torpido del giorno.
Porta in tasca gli amori solitari dei vecchi,
l’appetito millenario degli inverni,
a volte tace come un padre corrucciato,
ed è inutile rivolgergli la parola, conviene
in questi casi accucciarglisi nel grembo
come fa la neve nelle notti di gennaio.
L’albero capovolto
Non l’avevo mai visto il piccolo ponte
nascosto dalle alte terrazze del giardino,
ed oggi leggendo tra i cespi di aloe
e il rabarbaro le prima pagine della Legenda
di Jacopo, ho alzato lo sguardo e mi è apparso.
È lì – mi dico – dove è sempre stato
tra i costoni del monte rannicchiato e presago,
a volte si nasconde come un bambino
che si tuffa nella sorgente e gioca con le acque.
E non si vede. E pare che se ne sia andato.
Lo stesso accade quando una ghiandaia
sale nell’aria con un pesante scuoter d’ali
nel silenzio delle selve;
l’apparizione di una volpe o di un serpente
sul confine impalpabile di primavera,
e gli alberi familiari le rare case
non sembrano più gli stessi.
Quando le parole sradicate avvizziscono
come fiori, io cerco in luoghi elementari
ciò che in apparenza è diverso e lontano
e schiude la mente oltre la mia ombra murata
fin dove scavano i fiumi invisibili tra i dirupi,
e dal fondo di ogni tempo e della mia paura
alzo lo sguardo e l’ombra del grande faggio
mi traspare, me stesso capovolto,
ubriaco di memoria.
***
All’infanzia, all’età che raccoglie un’elegia pura e intoccata, guarda anche Stelvio
Di Spigno, classe 1975, napoletano, laureato e addottorato in Letteratura
Italiana. Ha pubblicato tre importanti raccolte e una monografia su Giacomo
Leopardi. Se in Mattinale (Sometti, 2002; 2ª ed. accresciuta Caramanica,
2006) l’opera è quella dell’esplorazione e della delineazione prima e giovanile
della propria identità nei confronti del mondo e degli altri suoi abitanti, a
partire da Formazione del bianco (Manni, 2007) si precisa un percorso
che cerca, piuttosto, di sbiadire il surplus odioso e malato delle cose presenti
mettendole in contrapposizione con un certo “album di famiglia”, conosciuto,
amato anche se a tratti soffocante, ma pur sempre caro e rassicurante. Ma è ne La
nudità (peQuod, 2010) che il prendere coscienza dell’impossibilità di
rifondare un’identità precisa e foriera di vita e progetti e svolte appare con
chiarezza. Nel dramma umano (non privo di gioie come lampi, però) del presente,
si innesta, allora, il recupero di un’infanzia dove sembra annidata ogni
pienezza, lo stato puro dove sogno e realtà si ricompongono in un
vagheggiamento che non vuole recare soluzioni. L’ultimo sforzo da tentare, con
grande onestà, è quel dialogo col mondo in una lingua nuda: la descrizione di
luoghi precisi, le mancanze, fatti e persone tutto, dunque, si scontra con
l’impossibilità del dire che sappia anche costruire. Allora non resta che
denudare gli intenti, le pre-concezioni, le idee, le macchinazioni psicologiche
attraverso l’utilizzo di un metro musicale che si sposta da un ritmo classico a
un’apertura verso un ignoto, un apparente sconfinamento nella prosa.
Escursione, 1978
Se c’è qualcosa che assomiglia a un paradiso,
è un auto con a bordo tre o quattro passeggeri
che vanno all’aeroporto senza troppi misteri
soltanto a vedere
il tuffarsi e rituffarsi degli aerei,
e pensare che un giorno l’abbiamo fatto anche noi,
che eravamo una famiglia e ci siamo rimasti,
siamo rimasti a domandarci
il perché degli aerei e del cielo,
e come tutto passi e noi stessi
avanziamo nei ricordi,
e se una luce di un pomeriggio nuvoloso
sia magari un segno e significhi qualcosa,
e cosa significhi il mondo, mentre noi che ci abitiamo,
riparati e contenti,
non possiamo capirlo e neanche ignorarlo.
Fine settembre
Si presentano a orari in cui ognuno prende il volo,
verso le sette di sera quando ancora c’è il sole,
e con i loro gridi prendono forme umane,
un gigante, per esempio, o un volto conosciuto,
tanto che l’occhio non distingue il perché del movimento
e vorrebbe saperne di più, ma questi stormi
fanno a gara con corriere e treni di fortuna
a sparire per primi, risucchiando
il brusio dei pendolari, la stanchezza dei passi,
la finzione di tutto.
Vanno dove si disperdono altre voci,
questa volta scaturite dalle case in lontananza,
e c’è chi come noi ricorda vagamente
dove abbiamo ascoltato per primi
le parole che non hanno ritorno.
***
Francesco Iannone, classe
1985, salernitano, esordisce nel 2011 per i tipi di Ladolfi con Poesie della
fame e della sete. Giovane già apprezzato per i versi pubblicati in alcune
riviste (Gradiva, Clandestino, Le voci della luna) e per alcuni premi ricevuti,
viene ora fuori con una poetica compiuta e riconoscibile. Se della “fame” e
della “sete” queste sono, allora, poesie essenziali e primarie. Beni primari
(pane, acqua, olio…) informano ogni bisogno e richiesta perché è il momento
della prova di volo che rileva, il primo ingresso consapevole nel mondo. Il
salto spaventa ma Iannone sa come mantenere una parte di incoscienza e di
fiducia proprie della fanciullezza, sa come non sprecare quella coscienza
aurorale che rende ogni evidenza sempre e ancora una sorpresa. Sono un cantico
creaturale alla maniera di S. Francesco, queste poesie, che contempla il bello,
il divino, ma pure la miseria e l’imperfezione tutta umana, in una misura
aperta e sincera che fa tremare il lettore poiché tenta l’analisi feroce di noi
stessi, la riprova e l’esame della vita. E la poesia è il principio di tutto,
perché è un seme che si rompe e germina qualcosa.
Prego i nidi rovinati dal vento
i corpi aperti e rovistati dentro
prego il seme rotto in attesa
di germoglio la resa
dei rami quando tutti i frutti pendono
prego l’occhio che sempre intercetta
e la mano appena scatta
per tutto quello che ora in fretta
si addormenta e spera.
*
I teli scossi dal vento
sulle serre della piana
colpi che hanno
il suono duro di un tamburo.
Intanto un insetto minuscolo vaga
attratto dal tepore di una luce
l’insetto minuscolo sfiora
il bordo rovente di un lampione
e si lacera un’ala.
Il suo cadere breve non si nota
in tutto quel fragore.
Il canto che questo temporale ora intona
è un coro di rami colpiti
uno squillare di pioggia caduta
sulle ringhiere.
Oggi ripensavo quell’insetto
il suo veloce planare e poi raccolto
sul letto che le foglie
in autunno per terra fanno.
***
Valerio Grutt, napoletano,
classe 1983, pubblica nel 2009 con le Edizioni della Meridiana la sua opera
prima “Una città chiamata le sei di mattina”. È anche narratore, cantautore e
videomaker e, tra le altre attività, collabora con il Centro di Poesia
Contemporanea dell’Università di Bologna. La poesia di Grutt sembra avere a che fare con
l’immagine di un calderone sempre ribollente dove pescare a piene mani e dove
conviene anche bruciarsi perché questo giovane scrittore si impegna a riportare
in versi e semplici teorie un’epica (faticosa, terribile ma affascinante) tutta
personale da eroe contemporaneo e metropolitano, auto-investitosi (e poi, però,
riconosciuto dal lettore) così un po’ per gioco un po’ per impossibilità di
fare altrimenti. Allora tutte le evidenze semplici, i dettagli quotidiani di
questa o quella esperienza normalissima, ogni vicissitudine ritratta, lampeggiano
con una forza dirompente e impossibile da non notare. Il tratto impressionista
dei versi, il rendere ciò che è già noto sotto un’altra forma, viva e immediatamente
recepibile sulla retina dell’occhio, fa dei versi di Grutt una sorta di film
che riproduce l’età più difficile e bruciante.
Notoriamente la sconfitta, la
disillusione, le pene d’amore cercano in ogni momento di rompere il guscio di
ferro che scherma il poeta-eroe. Ma sono la voglia di sfondare le linee nemiche
e la consapevolezza della “possibilità” di ricomporre le ansie e le fratture
che permettono di tentare una sintesi, una rimonta in senso pieno e positivo.
a mio padre che sarà tra forbici e stelle
Quel giorno avevano chiuso agosto
con i limoni sugli occhi
non sapevo ancora niente
degli aperitivi e dei film di Burton
giocavo a pallone
con la maglia del portiere
al centro del grande zabaione
dove Napoli galleggia
nella sala d’attesa
tolsero l’acqua al pesce rosso
il dottor temporale disse di chiudere le porte rimaste
socchiuse
ci caricarono il buio alla nuca e spararono
era un elefante con le gambe secche
e non ci volle molto a cadere
era l’ultima via Santa Lucia
che se ne andava timida dal golfo
hanno visto alzarsi in volo uno stormo
dalla piazza fredda del letto di mia madre
hanno tolto l’uomo
hanno sradicato le sue mani dalle mie
quando tornerà sarà davanti agli occhi di Antonio
e tra le braccia di Maria come il figlio che non ha
quando tornerà non sarà buio il corridoio
si siederà a tavola e dirà: “perché avete aspettato tanto…
potevate cominciare”.
*
se tu fossi stata innamorata di me
avrei trovato aperto un supermercato deserto
in cima alle stelle pieno di cioccolato
con gli scaffali lunghi del tempo rimasto sulle autostrade
e tu seduta nel carrello con un sorriso d’albero
avresti detto: voglio questo e voglio quello!
e invece patetico come l’uomo farò la fila con gli altri
e triste la cassiera mi darà il resto nel giorno grigio di
un K.O.