venerdì 3 maggio 2013

Geografie variabili - Quattro poeti campani

Questo articolo è già apparso in Farepoesia num. 6 Marzo 2012 - Anno 3





Geografie variabili
Quattro poeti campani

 

 
Che il titolo (ripreso da una sezione dell’ultimo lavoro di Stelvio Di Spigno,“La nudità”) sia utilizzato in riferimento a quattro poeti di una stessa regione e che poi, nel suo significato, distingua diverse geografie non è una stravaganza o, meglio, forse lo è ma, sicuramente, è anche un gioco innocuo e funzionale al senso della breve incursione nei testi e negli intenti dei quattro autori qui presentati. Detto questo, si possono paragonare i quattro poeti scelti (senza presunzione di esaurire, ovviamente, la conoscenza di tutta la giovane poesia campana contemporanea) ad altrettante radici di un albero. Ognuna parte dello stesso tronco ma ognuna è destinata a tracciarsi un proprio solco, una propria perfetta direzione. Queste quattro voci, infatti, hanno poche cose in comune ma, viste ognuna nella propria singolarità e specialità, possono rimandare indietro una mappa variopinta e interessante dalla quale riprendere, più in là e con buona volontà, si spera, un percorso/discorso più profondo e capillare di conoscenza e analisi.

 

 

Memoria dell’albero capovolto (Lampi di stampa, 2010) è l’ultima pubblicazione di Adriano Napoli, salernitano, classe 1973, insegnante di lettere, poeta, traduttore e critico. Tracciare un percorso onnicomprensivo della poesia di Napoli pare difficile, tanto più perché il suo lavoro si snoda in un arco temporale già importante. Mi limito, dunque, all’ultima valida prova dove l’elemento albero è una presenza che lenisce le stanchezze e un mito da conoscere, ri-conoscere e ripetere. La materia che Napoli padroneggia è un macromondo dove fare i conti con le rotture e le stravaganze della modernità, nel recupero di un tempo sicuro, imprescindibile, austero ma felice che è dentro l’infanzia. Così, è il poeta che deve trattenere la memoria delle cose andate via o messe troppo da parte. Ma il poeta è anche (e nel reale del Napoli e nell’ideale suo proprio, dunque in una coincidenza felice) un insegnante, il depositario di una bellezza semplice e sempre valida da tramandare con amore e dedizione. Sa slanciare (in un’identificazione con la natura che sembra premere con grazia sulla sua guancia, sulle sue mani, sui suoi occhi), così, i nomi di coloro che incrocia tra i banchi di scuola dal suo tronco verso il cielo, mostrando, con tenacia ma senza invasività, l’altra metà della medaglia, le ferite, le scorciatoie le quali hanno permesso che tutti perdessimo qualcosa (e, infatti, solo facendo i conti con le perdite appare intatto il verde che non muore mai). Tutto questo perché almeno il senso profondo, almeno il sentimento, possano tendere all’alto, a ciò che resiste sempre incontaminato.



Parco Ducale


Questo parco ha parole per tutti

ed alberi carezzevoli che scendono

ad ogni alba sulle ferite mortali,

esce furtivo dalla nebbia con il passo

esitante dei bambini quando tornano a casa

con le scarpe infangate o il giubbotto sdrucito,

una poltiglia di gelo è il bianco pallone

da calciare sotto il grugno torpido del giorno.

Porta in tasca gli amori solitari dei vecchi,

l’appetito millenario degli inverni,

a volte tace come un padre corrucciato,

ed è inutile rivolgergli la parola, conviene

in questi casi accucciarglisi nel grembo

come fa la neve nelle notti di gennaio.



L’albero capovolto


Non l’avevo mai visto il piccolo ponte

nascosto dalle alte terrazze del giardino,

ed oggi leggendo tra i cespi di aloe

e il rabarbaro le prima pagine della Legenda

di Jacopo, ho alzato lo sguardo e mi è apparso.

È lì – mi dico – dove è sempre stato

tra i costoni del monte rannicchiato e presago,

a volte si nasconde come un bambino

che si tuffa nella sorgente e gioca con le acque.

E non si vede. E pare che se ne sia andato.


Lo stesso accade quando una ghiandaia

sale nell’aria con un pesante scuoter d’ali

nel silenzio delle selve;

l’apparizione di una volpe o di un serpente

sul confine impalpabile di primavera,

e gli alberi familiari le rare case

non sembrano più gli stessi.


Quando le parole sradicate avvizziscono

come fiori, io cerco in luoghi elementari

ciò che in apparenza è diverso e lontano

e schiude la mente oltre la mia ombra murata

fin dove scavano i fiumi invisibili tra i dirupi,

e dal fondo di ogni tempo e della mia paura

alzo lo sguardo e l’ombra del grande faggio

mi traspare, me stesso capovolto,

ubriaco di memoria.


***


All’infanzia, all’età che raccoglie un’elegia pura e intoccata, guarda anche Stelvio Di Spigno, classe 1975, napoletano, laureato e addottorato in Letteratura Italiana. Ha pubblicato tre importanti raccolte e una monografia su Giacomo Leopardi. Se in Mattinale (Sometti, 2002; 2ª ed. accresciuta Caramanica, 2006) l’opera è quella dell’esplorazione e della delineazione prima e giovanile della propria identità nei confronti del mondo e degli altri suoi abitanti, a partire da Formazione del bianco (Manni, 2007) si precisa un percorso che cerca, piuttosto, di sbiadire il surplus odioso e malato delle cose presenti mettendole in contrapposizione con un certo “album di famiglia”, conosciuto, amato anche se a tratti soffocante, ma pur sempre caro e rassicurante. Ma è ne La nudità (peQuod, 2010) che il prendere coscienza dell’impossibilità di rifondare un’identità precisa e foriera di vita e progetti e svolte appare con chiarezza. Nel dramma umano (non privo di gioie come lampi, però) del presente, si innesta, allora, il recupero di un’infanzia dove sembra annidata ogni pienezza, lo stato puro dove sogno e realtà si ricompongono in un vagheggiamento che non vuole recare soluzioni. L’ultimo sforzo da tentare, con grande onestà, è quel dialogo col mondo in una lingua nuda: la descrizione di luoghi precisi, le mancanze, fatti e persone tutto, dunque, si scontra con l’impossibilità del dire che sappia anche costruire. Allora non resta che denudare gli intenti, le pre-concezioni, le idee, le macchinazioni psicologiche attraverso l’utilizzo di un metro musicale che si sposta da un ritmo classico a un’apertura verso un ignoto, un apparente sconfinamento nella prosa.



Escursione, 1978


Se c’è qualcosa che assomiglia a un paradiso,

è un auto con a bordo tre o quattro passeggeri

che vanno all’aeroporto senza troppi misteri

soltanto a vedere

il tuffarsi e rituffarsi degli aerei,

e pensare che un giorno l’abbiamo fatto anche noi,

che eravamo una famiglia e ci siamo rimasti,

siamo rimasti a domandarci

il perché degli aerei e del cielo,

e come tutto passi e noi stessi

avanziamo nei ricordi,

e se una luce di un pomeriggio nuvoloso

sia magari un segno e significhi qualcosa,

e cosa significhi il mondo, mentre noi che ci abitiamo,

riparati e contenti,

non possiamo capirlo e neanche ignorarlo.


Fine settembre


Si presentano a orari in cui ognuno prende il volo,

verso le sette di sera quando ancora c’è il sole,

e con i loro gridi prendono forme umane,

un gigante, per esempio, o un volto conosciuto,

tanto che l’occhio non distingue il perché del movimento

e vorrebbe saperne di più, ma questi stormi

fanno a gara con corriere e treni di fortuna

a sparire per primi, risucchiando

il brusio dei pendolari, la stanchezza dei passi,

la finzione di tutto.


Vanno dove si disperdono altre voci,

questa volta scaturite dalle case in lontananza,

e c’è chi come noi ricorda vagamente

dove abbiamo ascoltato per primi

le parole che non hanno ritorno.




***



Francesco Iannone, classe 1985, salernitano, esordisce nel 2011 per i tipi di Ladolfi con Poesie della fame e della sete. Giovane già apprezzato per i versi pubblicati in alcune riviste (Gradiva, Clandestino, Le voci della luna) e per alcuni premi ricevuti, viene ora fuori con una poetica compiuta e riconoscibile. Se della “fame” e della “sete” queste sono, allora, poesie essenziali e primarie. Beni primari (pane, acqua, olio…) informano ogni bisogno e richiesta perché è il momento della prova di volo che rileva, il primo ingresso consapevole nel mondo. Il salto spaventa ma Iannone sa come mantenere una parte di incoscienza e di fiducia proprie della fanciullezza, sa come non sprecare quella coscienza aurorale che rende ogni evidenza sempre e ancora una sorpresa. Sono un cantico creaturale alla maniera di S. Francesco, queste poesie, che contempla il bello, il divino, ma pure la miseria e l’imperfezione tutta umana, in una misura aperta e sincera che fa tremare il lettore poiché tenta l’analisi feroce di noi stessi, la riprova e l’esame della vita. E la poesia è il principio di tutto, perché è un seme che si rompe e germina qualcosa.



Prego i nidi rovinati dal vento

i corpi aperti e rovistati dentro

prego il seme rotto in attesa

di germoglio la resa

dei rami quando tutti i frutti pendono

prego l’occhio che sempre intercetta

e la mano appena scatta

per tutto quello che ora in fretta

si addormenta e spera.


*

I teli scossi dal vento

sulle serre della piana

colpi che hanno

il suono duro di un tamburo.

Intanto un insetto minuscolo vaga

attratto dal tepore di una luce

l’insetto minuscolo sfiora

il bordo rovente di un lampione

e si lacera un’ala.

Il suo cadere breve non si nota

in tutto quel fragore.

Il canto che questo temporale ora intona

è un coro di rami colpiti

uno squillare di pioggia caduta

sulle ringhiere.

Oggi ripensavo quell’insetto

il suo veloce planare e poi raccolto

sul letto che le foglie

in autunno per terra fanno.



 ***
Valerio Grutt, napoletano, classe 1983, pubblica nel 2009 con le Edizioni della Meridiana la sua opera prima “Una città chiamata le sei di mattina”. È anche narratore, cantautore e videomaker e, tra le altre attività, collabora con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. La poesia di Grutt sembra avere a che fare con l’immagine di un calderone sempre ribollente dove pescare a piene mani e dove conviene anche bruciarsi perché questo giovane scrittore si impegna a riportare in versi e semplici teorie un’epica (faticosa, terribile ma affascinante) tutta personale da eroe contemporaneo e metropolitano, auto-investitosi (e poi, però, riconosciuto dal lettore) così un po’ per gioco un po’ per impossibilità di fare altrimenti. Allora tutte le evidenze semplici, i dettagli quotidiani di questa o quella esperienza normalissima, ogni vicissitudine ritratta, lampeggiano con una forza dirompente e impossibile da non notare. Il tratto impressionista dei versi, il rendere ciò che è già noto sotto un’altra forma, viva e immediatamente recepibile sulla retina dell’occhio, fa dei versi di Grutt una sorta di film che riproduce l’età più difficile e bruciante.
Notoriamente la sconfitta, la disillusione, le pene d’amore cercano in ogni momento di rompere il guscio di ferro che scherma il poeta-eroe. Ma sono la voglia di sfondare le linee nemiche e la consapevolezza della “possibilità” di ricomporre le ansie e le fratture che permettono di tentare una sintesi, una rimonta in senso pieno e positivo.

 

 

a mio padre che sarà tra forbici e stelle

 

Quel giorno avevano chiuso agosto

con i limoni sugli occhi

non sapevo ancora niente

degli aperitivi e dei film di Burton

giocavo a pallone

con la maglia del portiere

al centro del grande zabaione

dove Napoli galleggia

nella sala d’attesa

tolsero l’acqua al pesce rosso

il dottor temporale disse di chiudere le porte rimaste socchiuse

ci caricarono il buio alla nuca e spararono

era un elefante con le gambe secche

e non ci volle molto a cadere

era l’ultima via Santa Lucia

che se ne andava timida dal golfo

hanno visto alzarsi in volo uno stormo

dalla piazza fredda del letto di mia madre

hanno tolto l’uomo

hanno sradicato le sue mani dalle mie

quando tornerà sarà davanti agli occhi di Antonio

e tra le braccia di Maria come il figlio che non ha

quando tornerà non sarà buio il corridoio

si siederà a tavola e dirà: “perché avete aspettato tanto…

potevate cominciare”.

 

 

*

se tu fossi stata innamorata di me

avrei trovato aperto un supermercato deserto

in cima alle stelle pieno di cioccolato

con gli scaffali lunghi del tempo rimasto sulle autostrade

e tu seduta nel carrello con un sorriso d’albero

avresti detto: voglio questo e voglio quello!

e invece patetico come l’uomo farò la fila con gli altri

e triste la cassiera mi darà il resto nel giorno grigio di un K.O.