Valerio Grutt, napoletano, classe 1983, pubblica nel
2009 con le Edizioni della Meridiana la sua opera prima Una città chiamata le sei di mattina. Come sceneggiatore e regista ha realizzato alcuni video e, tra le altre numerose attività, collabora con il Centro di Poesia
Contemporanea dell’Università di Bologna. La poesia di Grutt sembra avere a che
fare con l’immagine di un calderone sempre ribollente dove pescare a piene mani
e dove conviene anche bruciarsi perché questo giovane scrittore si impegna a
riportare in versi e semplici teorie un’epica (faticosa, terribile ma
affascinante) tutta personale da eroe contemporaneo e metropolitano,
auto-investitosi (e poi, però, riconosciuto dal lettore) così un po’ per gioco
un po’ per impossibilità di fare altrimenti. Allora tutte le evidenze semplici,
i dettagli quotidiani di questa o quella esperienza normalissima, ogni
vicissitudine ritratta, lampeggiano con una forza dirompente e impossibile da
non notare. Il tratto impressionista dei versi, il rendere ciò che è già noto
sotto un’altra forma, viva e immediatamente recepibile sulla retina
dell’occhio, fa dei versi di Grutt una sorta di film che riproduce l’età più
difficile e bruciante. Notoriamente la sconfitta, la disillusione, le pene
d’amore cercano in ogni momento di rompere il guscio di ferro che scherma il
poeta-eroe. Ma a ricomporre le ansie e le fratture sono la voglia di sfondare
le linee nemiche e la consapevolezza della “possibilità”; sono queste cose che
tentano una sintesi, una rimonta in senso pieno e positivo.
ar
a mio padre
che sarà tra forbici e stelle
Quel giorno
avevano chiuso agosto
con i limoni
sugli occhi
non sapevo ancora niente
degli aperitivi e dei film di Burton
giocavo a
pallone
con la maglia
del portiere
al centro del
grande zabaione
dove Napoli
galleggia
nella sala
d’attesa
tolsero
l’acqua al pesce rosso
il dottor
temporale disse di chiudere le porte rimaste socchiuse
ci caricarono
il buio alla nuca e spararono
era un
elefante con le gambe secche
e non ci volle
molto a cadere
era l’ultima via
Santa Lucia
che se ne
andava timida dal golfo
hanno visto
alzarsi in volo uno stormo
dalla piazza
fredda del letto di mia madre
hanno tolto
l’uomo
hanno
sradicato le sue mani dalle mie
quando tornerà
sarà davanti agli occhi di Antonio
e tra le
braccia di Maria come il figlio che non ha
quando tornerà
non sarà buio il corridoio
si siederà a
tavola e dirà: “perché avete aspettato tanto…
potevate
cominciare”.
*
se tu fossi
stata innamorata di me
avrei trovato
aperto un supermercato deserto
in cima alle
stelle pieno di cioccolatocon gli scaffali lunghi del tempo rimasto sulle autostrade
e tu seduta nel carrello con un sorriso d’albero
avresti detto: voglio questo e voglio quello!
e invece patetico come l’uomo farò la fila con gli altri
e triste la cassiera mi darà il resto nel giorno grigio di un K.O.
Un giorno
tornerai a Ischia lucente
isola sola, lontana mille anni dal mare.
L’abbronzatura all’oro degli anni
che brilla di notte al gelato d’agosto
e scale di case dall’aria salata
che increspa i capelli, e salite e discese dagli occhi.
A lui chiederai i capelli a cavatappi,
e di pettinarti giornate strappate all’abbraccio
della madre larga e del padre fascista
che ti compra le scarpe per camminare in campagna
e t’adotta alla zia che ti lascia una corda
per attaccare il sole a una sedia sul balcone.
Mamma che sfogli settimane enigmistiche,
e t’accendi al divano per le corde che stridono
dell’ascensore che mi porta al quarto piano.
Figlia di un marito scorpione e parrucchiere,
che giocava nella vita da angelo, tirato giù da un albero
a bere dagli spigoli le cose felici, tendeva una mano
al tuo sonno cattivo e tre figli, ti baciava sereno
come se non esistesse la pioggia ed il buio.
Tornerà la gioia del primo giradischi
la scoperta di cose naufragate nell’ombra.
Le ali aperte dei figli tuffati, alla buona pazienza
del cuore, di piazze, di auto al casello,
del respiro, vacanze, di sere finite
alla noia beata dell’essere soli.
Verrò a mangiare melanzane a funghetti,
all’alba del tuo sorriso preso a bellezza dei salti di uccelli.
isola sola, lontana mille anni dal mare.
L’abbronzatura all’oro degli anni
che brilla di notte al gelato d’agosto
e scale di case dall’aria salata
che increspa i capelli, e salite e discese dagli occhi.
A lui chiederai i capelli a cavatappi,
e di pettinarti giornate strappate all’abbraccio
della madre larga e del padre fascista
che ti compra le scarpe per camminare in campagna
e t’adotta alla zia che ti lascia una corda
per attaccare il sole a una sedia sul balcone.
Mamma che sfogli settimane enigmistiche,
e t’accendi al divano per le corde che stridono
dell’ascensore che mi porta al quarto piano.
Figlia di un marito scorpione e parrucchiere,
che giocava nella vita da angelo, tirato giù da un albero
a bere dagli spigoli le cose felici, tendeva una mano
al tuo sonno cattivo e tre figli, ti baciava sereno
come se non esistesse la pioggia ed il buio.
Tornerà la gioia del primo giradischi
la scoperta di cose naufragate nell’ombra.
Le ali aperte dei figli tuffati, alla buona pazienza
del cuore, di piazze, di auto al casello,
del respiro, vacanze, di sere finite
alla noia beata dell’essere soli.
Verrò a mangiare melanzane a funghetti,
all’alba del tuo sorriso preso a bellezza dei salti di uccelli.
*
Farei l'alba e le linee del cielo
con i segni lasciati dal cuscino
sul tuo volto appena sveglia, meraviglia
che ti togli dal sonno e vieni come gli uccelli
di giorno, la tua risata è chiamare il bene
per nome, alzi le reti dei fiori con lo sguardo.
Il fuoco e i confini, le sere gialle hanno la brezza
del tuo respiro, io ti sento esistere nel vento
che piega gli ombrelli, nel petto aperto
contro la notte che si abbassa addosso.
Voglio essere con te l'onda che s'alza
e si fa nuvola, fare come il polline chiaro
sui campi e la luce che libera gli angoli.
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La nota critica, con qualche variante, è apparsa in FAREPOESIA / Rivista di Poesia e Arte Sociale, N. 5 settembre 2011.